Gli studenti scoprono la politica
Diffido della memoria. Se i ricordi devono essere fonte di conoscenza, allora devono farsi storia: con la consapevolezza che storicizzare la propria vita è sempre molto difficile. Dunque, cos’è stato il Sessantotto per il sottoscritto, studente di quarta ginnasio? E’ consistito nella scoperta della politica, soprattutto di un aspetto di questa, di cui dirò sommariamente in conclusione. Provenivo da una famiglia di bassa socializzazione culturale, padre marittimo, madre casalinga: entrambi con studi fermi alla quinta elementare. Tuttavia, i miei genitori avevano investito sulla mobilità sociale verso l’alto dei due figli maschi: il mio fratello maggiore mi aveva preceduto di un decennio negli studi classici; infine, io ne avrei seguito le orme. Fino ad allora la politica era stata una dimensione lontana, per non dire estranea: la mobilità sociale non passava per la politica, ma attraverso la conquista dei titoli (laurea, professione ecc.). Ora, io, studente quasi quattordicenne, nel periodo precedente e durante l’occupazione dell’istituto sentivo parlare di riforma della scuola, di nuova cultura ecc.; e facevo fatica a comprenderne i concetti. La mia formazione era avvenuta nell’ambiente dell’oratorio dei Salesiani (San Giuseppe); e in quell’ambiente il mondo, ciò che succedeva al di fuori, era molto attutito. Insomma, la religione come difesa dal mondo: il Concilio doveva ancora dare i suoi frutti, a cominciare dall’aprire la Chiesa al mondo. Ecco un nodo di punti su cui riflettere storicamente. Il primo: il liceo classico era la culla in cui la piccola borghesia molfettese allevava i suoi eredi. E’ noto che sulla piccola borghesia meridionale Gaetano Salvemini ha scritto pagine di fuoco. Ebbene, ora i figli della piccola borghesia si collocavano su posizioni politiche e culturali di opposizione al sistema. Il movimento fu essenzialmente limitato ai due licei. Quasi del tutto assente, anche negli anni successivi, fu il movimento negli altri istituti, soprattutto nei tecnici. L’assenza trova la sua spiegazione nel fatto che questi ultimi istituti erano frequentati da studenti provenienti da classi e figure sociali (marittimi, agricoltori ecc.) che, mai scolarizzate, avevano trasmesso ai figli la convinzione che la conquista di un diploma era indice di promozione sociale, di cui i genitori e i fratelli maggiori non avevano goduto. E dunque, perché ribellarsi? Frequentare una scuola superiore era un vantaggio socioculturale da non dissipare con comportamenti di protesta. Consueta protesta del piccolo borghese? Fatto sta che da quella stagione emerse una nuova classe dirigente, che avrebbe diretto la città nei decenni successivi. Non viene da quella temperie, ad esempio, un noto ex-senatore locale? Verrebbe da osservare – sempre storicamente – che è anche verosimile che per il piccolo borghese rimanere su posizioni di opposizione presenta qualche difficoltà supplementare, perché necessita di contatti più stretti e organici col mondo della politica, non essendo sufficiente la sua specialità. Il secondo aspetto. Per motivi che non sto qui a riassumere, tutta – o quasi tutta – la classe dirigente del Sessantotto si era formata nell’associazionismo e nel mondo cattolico: valeva per Mario Capanna a Milano così come per il compianto Pinuccio Romano a Molfetta. Smettemmo di frequentare gli oratori per immergerci nel dramma sociale (ogni società è un dramma, beninteso). La Chiesa molfettese formava classe dirigente; era arrivata a formare anche quel settore di questa che si sarebbe poi collocato all’opposizione. Per i partiti di sinistra il problema di formare una classe dirigente passava attraverso altre pratiche sociali: il Psi era impegnato nel sottogoverno; il Pci aveva la sua roccaforte nei braccianti di Piazza Paradiso. L’unica eccezione era il Psiup, che non a caso avrebbe fornito quadri intellettuali al movimento. Il terzo aspetto. Molfetta mancava di una forte presenza della classe operaia. C’erano i braccianti; ma la loro presenza sociale, peraltro falcidiata in precedenza dall’emigrazione, era ormai in declino. Ebbene, il ceto degli intellettuali che dal movimento nelle scuole approdava alla politica era chiamato a svolgere il ruolo di supplente; ossia, doveva portare sulle spalle il peso di un protagonismo che non era solo il suo. Ad agevolare questa supplenza contribuì la diffusa convinzione che le professioni intellettuali stavano perdendo privilegi e posizione sociale: si stava affermando l’intellettuale-massa. Era una convinzione non priva di ambiguità politiche; tuttavia, era utilizzata per giustificare l’interesse per la lotta politica. Un ultimo aspetto. Lo spontaneismo durò poco, in virtù del formarsi di organizzazioni della cosiddetta «sinistra extraparlamentare ». Ma qui c’è un dato storico da rilevare: non ci si organizzava solo politicamente, ma socialmente e per generazioni. Si rifletta su un dato: negli anni Settanta, a Molfetta, fiorirono spontaneamente numerosi circoli giovanili, in cui ci si ritrovava per discutere e, all’occorrenza, per divertirsi, ballare ecc. Si era formata una società civile giovanile che sfuggiva alle nuove sigle politiche e ai partiti politici tradizionali: alcuni di questi (la DC e il PSI) riuscivano a drenare il consenso da queste nuove realtà solo attraverso la consueta politica clientelare (finanziamenti per iniziative ecc.). Questa realtà giovanile, sfuggiva anche al sottoscritto, dirigente della Federazione giovanile comunista per alcuni anni. Poi, anche Molfetta diventò terra di evangelizzazione di militanti formatisi nelle lotte delle grandi fabbriche del Nord o dello stesso Mezzogiorno. Dal 1971 arrivò come militante a tempo pieno per Lotta continua il piemontese Elio Ferraris: suscitatore di lotte e antagonismi e collezionista di denunce e condanne penali. Consumata quell’esperienza nel 1976, qualche anno dopo partì per il Sud America. Si arruolò – a quanto mi consta – nelle milizie sandiniste; partecipò alla rivoluzione sandinista e cadde nel 1981 in un’imboscata. Anche Molfetta, quindi, aveva visto la presenza attiva della figura del rivoluzionario professionale del Novecento. Sono convinto che, se avesse continuato a vivere a Molfetta fino all’arrivo di don Tonino Bello, questi avrebbe deciso che la prima persona da contattare sarebbe stata proprio Elio Ferraris. Quella del militante rivoluzionario a tempo pieno è stata la figura del profeta biblico del Novecento: e tra profeti ci s’intende. Ho realizzato dopo un altro dato storico; e cioè come in una città di provincia si fosse sviluppata un’esperienza intellettuale e politica che poteva competere con quelle ritenute politicamente più avanzate. Ho maturato subito questa convinzione quando mi sono trasferito per lavoro in una grande città del Nord nel 1980 – ma sarebbe più esatto dire che sono proprio fuggito da Molfetta. Le lotte e gli studi erano stati così formativi e severi (ah, l’École barisienne!) da potere sostenere agevolmente il confronto con la classe dirigente e gli intellettuali formatisi nelle dirompenti lotte delle grandi fabbriche del Nord. Nulla c’era da imparare; anzi, spogliandosi del provincialismo, si poteva insegnare qualcosa: nel trambusto delle lotte, avevamo studiato Il Capitale. E’ forse la specificità storica dell’intellettuale sovversivo piccolo borghese meridionale? Il terreno d’origine gli sta stretto; e così cerca altrove, in ambienti socialmente più avanzati, l’aria da respirare. Cos’era stata la militanza politica? Su questo, l’impolitico, l’antipolitico, il populista odierni vengono battuti in breccia: essi non riescono a pensare la loro soggettività; la militanza politica, essendo la più alta forma di conoscenza del Presente, riesce a pensare le loro posizioni: non per supponenza, ma in forza della convinzione che l’organizzazione politica è il momento di confronto fra vite esperite in maniera diversa e secondo stili anche differenti. E, del resto, cosa rimane di quegli anni? Operiamo in un altro secolo; e ciò c’impone di aggiornare le nostre categorie d’analisi, abbandonando i ricordi e mantenendo il background. E qui vale la posizione di un classico del pensiero del Novecento: sconfitti? Non importa, continuiamo. Continuiamo a cercare di capire, perché questo è la politica: pensare per oltrepassare. © Riproduzione riservata