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Della fame I nostri detti memorabili
15 giugno 2005

di Marco I. de Santis (Centro Studi Molfettesi) Sulla fame nel mondo, nel Terzo Mondo e nel Sud del Mondo si sono consumati e si consumeranno oceani di parole. Se la soluzione politica dell'immane problema spetta agli organismi internazionali e ai paesi industrializzati più ricchi, i piccoli passi concreti sono affidati alla sensibilità di ciascuno di noi. Non bisogna però dimenticare che le sacche di povertà esistono anche nelle società opulente, non solo nell'appartamentino del pensionato vecchio e solo, ma pure dietro la porta del vicino di casa orgoglioso e discreto. Il flagello delle carestie e le difficoltà della sopravvivenza quotidiana traboccano anche nei libri di storia e segnano di frequente il patrimonio paremiologico superstite. La demologa Rosaria Scardigno in Molfetta allo specchio come appare dal suo lessico (Mezzina, Molfetta, 1963, pp. 144-147) offre uno spaccato popolare di questa dolente tematica. Il proverbio più emblematico è senza dubbio La fêmë è nê spécjë dë raggë (La fame è una specie di rabbia), che non ha bisogno di chiose, considerato che non sempre i poveri potevano far ricorso a èrvë salvaggë e ratëcatë d'èrvë (erbette selvatiche e radici d'erba). Ma è soprattutto nella serie dei motti dialogati che si coglie l'estro di chi, non avendo sempre il pane o il pasto assicurato, rispondeva al suo indelicato o inopportuno interlocutore o in modo evasivo o con ironia amarognola o con tono infastidito. Alla domanda: — Cé ssi mêngiàtë? (Che hai mangiato?) – ci si poteva sentir replicare: — Grazzjë dë Ddì chë la frëccìnë (Grazia di Dio con la forchetta) —. Oppure: — Scarciófëlë (Carciofi) — ovvero: — Pêncùëttë e rràuchë (Pancotto e ruchetta) — o ancora: — Gnóchëlë (Gnocchetti) —. La risposta si faceva più pungente nelle varianti: — Gnóchëlë e rizzë! (Pastina e ricci!) — e: — Gnóchëlë cu mêutë! (Gnocchetti con l'imbuto!). Altrimenti si rivestiva di malcelata irritazione nella replica: — Pilë frittë a la salzë! (Peli fritti in salsa!) — o si colorava di ambiguità nella battuta: Nu fòngë! (Un fungo!), con più o meno larvata allusione alla sfera sessuale maschile. Ancora più spinta e intrisa di trivialità era la risposta: — Du rìpëlë! (Due piselloni!) —, dal momento che rìp(ë)lë è pure un volgare eufemismo per “testicoli” (al singolare il termine fa rèp(ë)lë). Altre repliche triviali sono state messe parzialmente in luce dalla Scardigno, ma qui si pubblicano integralmente, con le controrepliche in rima: — Cé ssi mêngiàtë? — Cazzë, chëchëzzìëddë ed óëvë. — Chèssë sì ca è nê mënéstê nóëvë! (Che hai mangiato? — Cacchi, zucchini ed uova. — Questa sì che è una minestra nuova!); — Cé ssi mêngiàtë? — Cazzë, sparacazzë e chëcózzë. — Chéssa mënéstë sì ca më ngózzë! — (Che hai mangiato? — Cacchi, arcicacchi e zucche. — Questa minestra sì che mi garba!). Tra le risposte agrodolci la Scardigno pone anche sëlëfizzë e zarrècchjë, che ritiene «due parole senza senso, cariche di mal contenuta noia, per evitare di rispondere: va a quel paese» (p. 145). Quelle parole invece non mancano di significato. Sono infatti due nomi di piante. Per la zarrècchjë, in più di trent'anni di ricerche, non sono riuscito ad ottenere da contadini, pastori, pecorai e vaccai dettagli più precisi, ma con largo beneficio d'inventario si potrebbe istituire un confronto con le voci toscane saracchio e salecchio, nomi popolari dell'Ampelodesma mauritanica. Per u sëlëfizzë viceversa, grazie a ripetute erborizzazioni, più di cinque lustri fa sono stato in grado di identificare correttamente la pianta. Si tratta della calcatreppola (Centaurea solstitialis), un'asteracea a fiori gialli densa di spine. Il che fa capire ancor meglio quanta acre ironia ci sia nell'espressione mêngià sëlëfizzë (mangiare cardi spinosi) o mêngià sëlëfizzë a la salzë (mangiar calcatreppole in salsa). Noto en passant che il fitonimo è entrato nell'onomastica pugliese con i cognomi Solfrizzi, Solfrizzo e Solofrizzo, diffusi soprattutto a Bari e Barletta. Altri motti dialogati inediti li presento qui di seguito, in crescendo dalla burla sorniona alla salacità più spinta: — Cé mmêngë? — Rëmurë dë carrózzëlë! (Che mangi? — Rumori di carrozza!); — Cé ssi mêngiàtë? — Calècchjë! (Che hai mangiato? — Cocci di creta!). Oppure: — Capë dë stuzzë! (Un caspita di niente!). O addirittura: — Stùëzzë dë chinnë attaccat'o fàilë (Pezzi di cacchio attaccati al filo). Perfino nei saluti più amichevoli faceva capolino l'insopprimibile desiderio del cibo: — Comë scêmmë? — Nên g'è mmêlë, a nê ghêmm'a nê ghêmmë… — Statë tuttë bbùënë? — A mêngià vëlìmmë!... (Come andiamo? — Non c'è male, così così… —State tutti bene? – A mangiar vogliamo!...). Un antico proverbio molto amaro è quello da me segnalato in “Quindici giorni” (n. 9, sett. 2004, p. 13), che la dice lunga sulla forzata astinenza alimentare: Dùdëcë sò li mìsë e ttrìdëcë sò ri llùnë, / mê la cchjù nótta lónghë è quênnë të culchë a la dësciùnë, Dodici sono i mesi e tredici sono le lunazioni, ma la notte più interminabile è quando ti corichi digiuno. Nei corsi e ricorsi storici delle carestie e dell'indigenza, in un paese di mare come Molfetta affioravano pure le preoccupazioni dei marinai, che qualche volta, ironizzando sulle difficoltà economiche, rifacevano il verso al latino dei preti: Bënëdittë Sêm Bëlìscë e Ssan Bartoloméum, c'av'a prëttà la varchê nóstë in salvamendum. L'av'a fà vënì càrëchë dë chinnë dë sërtùscënë e gghêmmë d'êngìddë: la misériê nóstë (Benedetto San Felice e San Bartolomeo, che porterà la barca nostra in salvamento. La farà venire carica di membri di testuggini e gambe d'anguilla: la miseria nostra). Sbarcare il lunario era difficile anche per i lavoratori giornalieri e per gli operai e gli artigiani pagati a settimana. E se il lavoro veniva meno, comprare a credito diventava rischioso a causa delle rimostranze dei creditori in attesa del pagamento e delle canzonature del vicinato, come documenta questa strofetta cantata a Molfetta: E nnê e nnê e ngul'a papà! / Ha ffàttë a chëppòënë e n'ha datë a mêngià, / e do(p)pë séttë dì / véënë la jòësë a ccasê mì (E busca e busca, povero papà! / Ha comprato a credito e ci ha dato da mangiare, / ma dopo sette dì / vien data la baia a casa mia). Erano questi, purtroppo, i tristi effetti della povertà, compagna stretta dell'appetenza insoddisfatta, che faceva dire ai nostri avi: La fêmë è nê bbrutta bbéstjë (La fame è una brutta bestia).
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