Dei luoghi comuni che alimentano il fondamentalismo della didattica in presenza
Chiunque di noi, nel corso di quest’interminabile anno pandemico, si sarà ritrovato in fila per entrare in un negozio. Nella maggior parte dei casi, infatti, l’accesso è limitato a un massimo di tre persone contemporaneamente e il più delle volte è previsto un rigoroso uso della mascherina. Quanto tempo, in media, un individuo trascorre in un esercizio commerciale? Un quarto d’ora? Venti minuti? Pochi, specie in periodi come questo, stazionano per periodi lunghi in ambienti non amplissimi. Bene, non si comprende, a rigor di logica, perché tutti quegli accorgimenti, che appaiono naturali e irrinunciabili in altre situazioni quotidiane, con conseguenti comportamenti pretesi dai negozianti, scompaiano nel momento in cui si giunge a parlare del complesso nodo della scuola. In un’aula (in media non più ampia di un negozio) possono stazionare, per un periodo ininterrotto, che da un minimo di quattro-cinque ore si spinge a un massimo di sette, in alcuni casi anche ventisette- ventotto individui, i quali respirano, parlano e – durante l’intervallo – abbassano la ‘mascherina’ per consumare una merenda. Non si intende bene come questa situazione possa essere definita, oggi, in maniera ancor più illogica con l’imperversare della variante inglese, “sicura”. Questo delle scuole “sicure” sembra sempre più un mantra sullo stile dell’abusato “andrà tutto bene”, ripetuto pappagallescamente più per intenti di autoconvincimento o di esorcizzazione delle ombre, che per l’esistenza di effettivi dati a sostegno di questa tesi. Sembra che tutto sommato il Coronavirus sia dotto e ossequioso dei contesti scolastici. Si tuona contro i trasporti, che non godono della stessa aura di ineffabilità, come se, una volta dismessa la veste “lutulenta” dei contesti volgari, e indossati i panni “curiali e aulici” dei grembiuli scolastici, il Covid perdesse qualunque possibilità di nuocere. Va da sé che, a ragionare con un minimo di buon senso, merce sempre più rara, questa fede intemerata nella sicurezza della scuola sembrerebbe più una ridicolaggine melensa di stile ottocentesco. Una ridicolaggine, sì, se non fosse per il portato tragico che reca con sé: il fatto che gli studenti divengano vettori dell’infezione e la ‘consegnino’, il più delle volte inconsapevolmente, a genitori, nonni e a quelle persone ‘fragili’ di cui oggi sembra importare poco alla maggioranza. Ciascuno è infatti convinto di riportare il primo premio nella competizione per la “selezione naturale”, forte di chissà quale scommessa con la Parca. Ti ritrovi mamme inferocite e incattivite che tuonano contro la didattica a distanza e i soliti furbi, pronti ad approfittare di tutto, che ne hanno fatto il vessillo di una protesta politica contro Emiliano. Gli avvoltoi hanno sempre appetito. Eppure le ragioni per non disprezzare questo strumento, che certo non sostituirà mai l’efficacia della lezione in presenza (non ci vuole un grande pedagogista per decretare tale ovvietà), sarebbero tante. In primis, un genitore attento alle regole nel contesto scolastico dovrà subordinare la sicurezza della propria famiglia al buon senso di altri individui. A tal proposito, basta passeggiare in un orario qualunque per le vie di Molfetta, per accorgersi che il buon senso latita. Appare infatti prevalente il numero di individui poco civili, non provvisti di mascherina, nonostante i numeri per la provincia di Bari siano tutt’altro che confortanti. In secondo luogo, la presunta inefficacia della didattica a distanza è un mito da sfatare. Come per quanto avviene in presenza, è l’abilità del docente a determinarne il fallimento o la validità. Un insegnante che sappia svolgere coscienziosamente il proprio lavoro riesce a trarre il massimo beneficio anche in situazioni difficoltose. Uno studente che sia motivato all’apprendimento non sarà di certo distolto da tale medium, peraltro opzionato perché il periodo attuale è di una gravità estrema, anche se molti non se ne sono pienamente resi conto. Quanto agli allievi che versano in situazioni di difficoltà economiche, forse pochi sanno che gli istituti in molti casi provvedono a offrire aiuti concreti e, a chi ne faccia richiesta, dispositivi atti a garantire la partecipazione alla didattica a distanza. Occorre poi sradicare il mito, populista anch’esso, degli studenti che si riversano in strada e si assembrano perché le scuole sono chiuse e negozi, ipermercati e affini aperti. Innanzitutto, quello che è chiuso – e nemmeno in tutti i casi, viste le proliferanti situazioni “non diversamente affrontabili” – è un edificio, un luogo fisico. La Scuola, ch’è un concetto più alto e valica i confini materiali, non si è mai fermata né si fermerà. La mattina i ragazzi devono collegarsi con i loro docenti, i quali spiegano, interrogano, assegnano compiti di cui chiedono conto agli allievi. Insomma, non si tratta propriamente di una vacatio mentis. Gli studenti che si applicano nella didattica a distanza sono spesso i medesimi che si impegnano in presenza. Sono quelli che dedicano pomeriggi interi a prepararsi alle interrogazioni. Anche il luogo comune che sia più facile ‘barare’ è semplicistico: un docente esperto si accorge se lo studente sta leggendo e gli basta condurlo rapidamente di argomento in argomento, perché non possa attuare le strategia del ‘gabbo’. Infatti, le insufficienze non mancano a distanza come in presenza. Paradossalmente, invece, alcuni ragazzi che palesano timori in presenza, acquisiscono sicurezza grazie al filtro dello schermo e riescono a rendere in maniera più convincente. Tornando poi agli studenti ‘assembrati’, sembra che questi soloni tonanti non siano mai stati adolescenti e non sappiano ch’è sempre esistita una percentuale di ragazzi che gironzolano di pomeriggio, perché non abituati ad applicarsi nello studio. Insomma, i giovinetti in strada alle 15 abbondano solo in tempi pandemici! Tutti prima erano ligi allo studio ed educati da far invidia a Oxford. Verrebbe da rispondere agli integralisti della presenza che, se così è (e pare loro), allora è bene si torni tutti in classe! Quando, però, si dovessero verificare casi – non rari, vista l’esistenza di correttissimi genitori che spediscono i figli in aula pur sapendo di essere stati a contatto con positivi –, è altrettanto opportuno che si proceda alla chiusura per sanificazione, ma, data la ‘conclamata’ inefficacia della didattica a distanza, ci si astenga dal far ricorso alla comoda ancora di salvezza delle tanto odiate lezioni al pc. Forse questi signori potrebbero allora rendersi conto di quanto sia effettivamente bello un anno scolastico di presenza a singhiozzo e di quanti giorni si perderebbero, senza la tanto vituperata didattica a distanza! In risposta poi ai sostenitori della ‘socializzazione’ (nessuno peraltro nega sia importante!), si potrebbe far notare che in una scuola in presenza in cui ciascuno debba starsene al proprio posto, mascherato, distanziato, con banditi abbracci e contatti di qualunque genere e igienizzazioni a ogni piè sospinto, non è che le condizioni risultino poi così favorevoli alla tanto sospirata ‘socializzazione’. Sarebbe forse ora di desistere dalle ‘geremiadi’ (non è deplorando la nostra sorte che la cambieremo), smettere di ciarlare di una improbabile convivenza col virus (facile per chi non si sente ‘fragile’ o ha già superato il momento critico!) e persistere con i sacrifici, nella speranza che, complice la campagna vaccinale, si possa superare l’ultimo miglio, il più difficile. Il più pericoloso. Daniela Bufo