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Amara terra mia amara e dolce
15 luglio 2008

Il mare luccicava lontano ed il bambino lo contemplava estasiato. “Mamma, che c'è dopo il mare?” – chiedeva – “L'altro mare”. “E poi?”. “Ancora l'altro mare”. “E poi e poi?”. “E poi c'è l'Italia”, spiegava la mamma. “Quando diventerò grande, camminerò sul mare e andrò in Italia”. “Ma no, che non puoi!”. “Poi vedrai”. La donna sospirava pensando a questo strano figlio, così diverso dai suoi fratelli e dagli altri bambini. Saimir era il primogenito ed era così attento e tenace, quando voleva una cosa! Dell'Italia ne parlava il nonno, che era vissuto al tempo dell'occupazione italiana in Albania e non è che ne parlasse molto bene. Ma naturalmente la guerra è guerra e le occupazioni successive, dei tedeschi prima e dei russi poi erano state ben peggiori. L'Albania, in confronto all'Italia, era una piccola terra, ma la sua posizione era strategica per il controllo dell'Adriatico. E così passarono gli anni; Saimir visse la sua infanzia e l'adolescenza sotto la dittatura comunista che aveva chiuso il paese entro i suoi confini ed aveva osteggiato tutte le religioni, la ortodossa, la cattolica e l'islamica. La nonna, che era cattolica, aveva battezzato di nascosto tutti i nipotini e quando cominciava a raccontare,non la finiva più: “Vi ricordate? La moglie di Pal, quella che abita in fondo alla strada, per colpa di una vicina dispettosa, fu scoperta a farsi un segno di croce e sapete che le successe? Fu messa in prigione per tre mesi, figuratevi! E veramente non si erano mai viste cose simili. Noi albanesi ci vantavamo di essere unici al mondo a far vivere insieme per secoli, ortodossi, cattolici ed islamici senza darci fastidio, ma ora, finalmente, ognuno può pregare Dio come gli pare”. “Va bene – replicava Saimir, ormai ventenne – ma non si può vivere di sola religione! Qui moriamo tutti di fame, anche se è caduto il passato regime e le frontiere sono aperte ormai, ma che ce ne facciamo di questa famosa libertà?” I giovani del posto si trovavano la sera nella piazzetta del piccolo paese arroccato sulla montagna, situato proprio di fronte al mare. Che fare? Saimir era forse il più fortunato, per il fatto che aveva acquisito una abilità manuale come pochi; era molto capace nel lavoro, mentre gli altri, indolenti e passivi, si limitavano a lamentarsi e a brontolare. Nel piccolo bar che talvolta frequentavano, potevano seguire i programmi della televisione italiana. Che mondo era quello! Donne bellissime ed eleganti, giochi con tanti premi e che lusso nelle case! Un mondo inaccessibile. Saimir, attento ad ogni minima sfumatura, faceva notare che anche lì la vita non doveva essere facile, i soldi non si trovavano per terra. Lui ascoltava la radio, mentre era al lavoro e sia dai notiziari, sia dai telegiornali, notava che anche in quel paese c'erano problemi a non finire: fatti di cronaca raccapriccianti, famiglie in dissesto, proteste continue per il caro vita, politici corrotti e governi traballanti e che più ne ha, più ne metta. Il giovane era abituato ad una rigida disciplina; dopo pochi anni di studio, era stato avviato a bottega da un sarto, uomo piuttosto esigente. Ma non era quello che il ragazzo sognava. Da piccolo si divertiva a montare e smontare i giocattoli e tutti i macchinari che gli capitavano tra le mani. Era affascinato dall'elettricità e dalle poche motociclette che si vedevano in giro. Le biciclette ormai non avevano segreti per lui, ma possedere una moto! Che sogno! Quando era sui quindici anni, capitò che l'unica officina del paese cercasse un garzone. Si presentò subito e fu preso. La sua aria seria e risoluta fece una buona impressione sul vecchio meccanico. Il ragazzo lavorò da mattina a sera incessantemente, quasi non frequentava più i vecchi amici della piazzetta. Non guadagnava molto, ma imparò ben presto tutti i segreti delle riparazioni meccaniche. Era una bella soddisfazione vedere un lavoro ben fatto. Passò poi all'elettrauto, alle gomme e alle carrozzerie. Le famose moto che gli facevano palpitare il cuore erano lì, nelle sue mani, anche se i proprietari, i signori del paese, le maltrattavano abbastanza e non sapevano prendersene cura. Ma un brutto giorno l'anziano proprietario morì e nessuno fu in grado di acquistare la piccola officina. Saimir si trovò disoccupato da un giorno all'altro e a casa c'erano tre sorelle ed un fratellino da mantenere, visto che suo padre, più malato che anziano, non ce la faceva più a lavorare. Vissero tutti, per giorni e giorni, nella disperazione. Si sparse ad un tratto una notizia: stava per partire una nave diretta alle coste italiane. Il giovane si precipitò nel bar che fungeva da agenzia; tutto pieno, non c'era nemmeno un biglietto disponibile. L'Italia, con le sue attrattive conosciute attraverso la televisione, era nel pensiero di tutti. Possibile che non ci fosse qualcuno che all'ultimo momento non rinunciasse? “Mettetemi in lista di attesa” – disse all'impiegato. In seguito, pagando un sovrapprezzo ad uno di quegli affaristi faccendieri che si trovano sempre pronti in quelle occasioni, il biglietto fu trovato. Ma che delusione! La nave, stracarica, era una vecchia carretta, ben poco sicura; il caldo soffocante, la mancanza di sonno, le stupidaggini che sentiva intorno a sé, misero alla prova i poveri nervi del giovane migrante. Giunti in vista della costa italiana, altro ostacolo e che ostacolo!, il più grosso di tutti: non si poteva sbarcare, le autorità di Brindisi non davano il permesso. E così passarono tre giorni d'inferno: i viveri e l'acqua scarseggiavano, il sole incombeva minaccioso e non si vedeva via d'uscita. A quel punto Saimir ed altri due amici, meno stupidi degli altri, cercarono una soluzione alla disperata: si sarebbero buttati in mare e avrebbero raggiunto a nuoto la riva. Probabilmente non ce la l'avrebbero fatta, perché la costa era abbastanza lontana, ma meglio la morte che continuare a vivere in quel modo. “Pagheremo per tutti” disse il giovane agli altri due. Ci fu, naturalmente, chi disse che l'impresa era pazzesca e chi si rivolse al capitano della nave, perché facesse marcia indietro per tornare in Albania. Ma Saimir non voleva tornare laggiù; morire di fame o morire annegati era la stessa cosa. Intanto il tempo passava e il sole era implacabile; la situazione si faceva sempre più drammatica. Si vedeva gente che sveniva per la stanchezza e la fame ed altri che imprecavano sempre più minacciosamente: “Maledizione! Com'è possibile che nessuno ci aiuti? Alla faccia della solidarietà internazionale, con cui si sciacquano la bocca i nostri uomini politici!” Ma no! ho sentito la notizia. proprio ora dal radiotelegrafista, forse ci possono accogliere!” Era avvenuto, infatti, che una delegazione di cittadini, impietositi dalla condizione di quei poveracci che gridavano e cercavano aiuto, era riuscita a vincere le resistenze delle autorità. Per la verità, la popolazione si diede da fare ad accogliere i profughi e organizzò addirittura delle cucine da campo per le strade. “Questi italiani – pensarono tutti – sono migliori di quanto dicono!” Da Brindisi, nei mesi successivi, passando da una città all'altra, tra speranze e molte delusioni, Saimir si fermò in un paese costiero della Puglia, grazie all'aiuto della Caritas locale. Per fortuna il lavoro lì si trovava e lui aveva delle capacità non comuni, quando si trattava di avere a che fare con motori ed oggetti meccanici. Naturalmente non si parlava proprio di avere un'assicurazione ed il permesso di soggiorno era tanto difficile da ottenere! Il tempo libero era poco, perché i padroni dell'officina sfruttavano al massimo i loro dipendenti; comunque qualche spazio c'era per incontrare gente e, soprattutto, ragazze. Saimir sapeva che nel paese c'erano anche ragazze albanesi, ma lui era affascinato dalle donne italiane, così diverse e intraprendenti. Solo che gli sembrano piuttosto “libertine” – come lui le definiva - e dubitava che, in assenza dei mariti, non avrebbero intrecciato altre relazioni. Comunque fra tante, ne incontrò una che lo colpì in maniera particolare. Rosamaria era una ragazza simpatica e socievole, con una gran massa di capelli neri ricciuti ed un viso solare e sempre sorridente. Lavorava, come persona di fiducia, presso la centralissima Casa della Moda. Puntuale e precisa, trattava coi fornitori ed era attenta ai desideri del pubblico. Dopo qualche mese, il matrimonio e, al momento giusto, un figlio. L'emozione fu grande. La notizia giunse in Albania, anche se la nonna accettava con malincuore una nuora straniera. Purtroppo dopo un po' di tempo cominciarono i contrasti che, per la verità, erano già stati previsti dalla padrona del negozio e da altri amici, fermamente contrari ad una unione che, in partenza, si presentavamolto problematica. Come poteva, una donna come quella, andare a finire i suoi giorni in uno sperduto paese sui monti? Rosamaria non era abituata a controlli ossessivi sul suo entrare ed uscire di casa e Saimir non riusciva ad immaginare un ménage diverso da quello che aveva vissuto nella sua famiglia di origine. Il bambino, tanto caro a tutti e due, li tenne per qualche tempo ancora uniti, ma i contrasti ed i battibecchi erano continui. La goccia che fece traboccare il vaso, fu la decisione di lui di tornare in Albania. I genitori si facevano sempre più anziani e l'usanza del paese era che andassero a vivere nella casa del figlio maggiore; del resto, anche le sorelle di Saimir avevano in casa i suoceri. Non erano cose che si potessero cambiare. Per fortuna, le discussioni tra i due giovani non giunsero agli eccessi di altre coppie in crisi, ma la lacerazione fu ugualmente dolorosa. Il loro rapporto era stato bello nell'euforia dell'inizio, ma le banalità della vita quotidiana, l'impegno faticoso per la crescita del bambino ed altri fattori non previsti avevano ormai logorato quell'intesa che, nonostante i pronostici, appariva a tutti abbastanza consolidata. Passarono molti mesi tra tira e molla, tra avvocati e consulenti vari, ma poi la rottura fu inevitabile. Saimir, dopo una visita ai suoi, pensò di trasferirsi da un'altra parte, anche se gli dispiaceva staccarsi dal piccolo Alex, che aveva ormai quattro anni. Arrivò, per fortuna, una chiamata da Venezia. Un suo parente, Ilir, di qualche anno più grande di lui, gli comunicava che la ditta presso cui lavorava era alla ricerca di personale specializzato, per la riparazione ed il commercio di macchine usate. Le condizioni di lavoro erano ottime, soprattutto perché c'erano tutti i diritti sindacali e lui non avrebbe più lavorato “al nero” come fino a quel momento. Certo la vita era piuttosto cara, ma lui avrebbe potuto ospitarlo per i primi tempi e poi in qualche modo si sarebbe sistemato. Ilir e Saimir erano stati sempre buoni amici, sin da quando giravano la sera sulla piazzetta del paese. Il cugino, assieme a sua moglie Edlira, albanese come lui, si era completamente integrato nella società italiana, anche perché la ragazza era vissuta per anni a Tirana, la capitale. Poi Venezia era una città dai grandi orizzonti ed il nuovo venuto si sarebbe trovato bene. E così avvenne che Saimir, dopo i primi tempi di adattamento, si era trovato ad alloggiare in un alberguccio di Mestre tenuto da un cinese. Riusciva a mandare del denaro ai suoi e sperava sempre di tornare nel suo paese. Nei momenti liberi guardava il mare e pensava: “Se mandassi un messaggio in una bottiglia, questa arriverebbe in Albania. Chissà quante gocce di questo mare, portate dalla corrente, bagnano la mia terra!” Amava tanto la musica e ricordava le parole di una canzone nostalgica: “Addio, addio, amore. Io vado via! Amara terra mia, amara e dolce!” e camminando, la cantava tra sé e sé sottovoce. Intanto vedeva le grandi differenze tra i modi di vivere dei due paesi. Era stato sempre una persona attenta e riflessiva ed ora, con un matrimonio fallito alle spalle, era diventato anche più consapevole. Capitò, in città, il periodo di carnevale. Saimir era sbalordito dal movimento che si creò in pochi giorni. Nel suo paese le feste quasi non esistevano; forse solamente a Pasqua si vedeva qualche novità. Sotto il passato regime comunista c'era qualche parata e poi basta. Ma ora i veneziani parevano impazziti. Andavano persino al lavoro con i costumi che avrebbero poi sfoggiato nei numerosi balli in maschera che si tenevano ogni sera! Un compagno di lavoro con cui il giovane era riuscito a comunicare, gli parlò della storia della Serenissima: “All'origine, i nostri antenati avevano una terra che non prometteva niente; una terra fatta di scogli inospitali, senza possibilità di coltivazione”. “Va bene, anche l'Albania è quasi tutta montuosa, allora come mai i due Paesi hanno avuto destini così diversi?” Marco, il veneziano, ribatteva: “Ma Venezia si è aperta ai commerci e a tutte le popolazioni; addirittura ha avuto anticamente un uomo di colore a capo del suo esercito, il famoso Moro di Venezia. E poi tu lo vedi dai suoi palazzi e dalle sue chiese, che presentano tutti gli stili, dell'Oriente e dell'Occidente; noi siamo aperti a tutti gli scambi, se questi ci portano denaro in cassa. Non senti che qui si parlano tutte le lingue? Noi, in aggiunta, sappiamo divertirci; abbiamo teatri ed opere d'arte che non si contano e così arrivano turisti da tutto il mondo”. “Mi pare proprio che tu abbia ragione – dovette ammettere Saimir malvolentieri - la nostra lingua, ad esempio, è così diversa da quella dei paesi circostanti, perché l'Albania ha sempre chiuso le frontiere per secoli e secoli. Sai, i popoli vicini non erano tanto teneri ed amichevoli e perciò i miei antenati hanno sono stati più bravi nell'arte della guerra che nell'arte del commercio. E così, noi siamo conosciuti da tutti come un popolo fiero e bellicoso”. Una sera, stava ancora riflettendo ai discorsi del suo amico veneziano, mentre tornava al suo alloggio, quando, ad un tratto, sentì un brutto rumore di ferraglie fracassate. Aveva notato un'auto che veniva a tutta velocità, senza rispettare la precedenza. Il grosso mezzo fuoristrada si dileguò a luci spente e lasciò una piccola utilitaria in mezzo all'incrocio, in una posizione pericolosa. Il giovane si avvicinò al conducente e vide, al volante, una giovane donna sconvolta e piangente che non riusciva a rimettere in sesto la macchina e a farla ripartire. Si avvicinò domandando: “Si è fatta male?” “No, è solo che ho preso un brutto colpo e non riesco a far niente”. “Sono un meccanico, mi lasci fare, se vuole”. La ragazza disse di sì col capo e mentre Saimir si dava da fare per raddrizzare il paraurti che si era incastrato sulla ruota, si spostò lasciando a lui il volante: “Sa, sono un'infermiera dell'ospedale di Mestre, ho fretta, perché ho il turno di notte.” Saimir si offrì di accompagnarla e poi le diede l'indirizzo dell'officina dove lavorava, per procedere alle riparazioni. Di assicurazione non c'era da parlarne, perché quel farabutto si era comportato come un pirata della strada. Il giorno dopo la ragazza fece riparare l'auto e gli diede il suo recapito, dicendogli che volentieri l'avrebbe incontrato per dimostragli la sua riconoscenza. Marcella, era una donna sui trent'anni, con una espressione dolce e ferma nello stesso tempo ed un viso contornato da capelli biondi raccolti dietro la nuca. Svolgeva il suo lavoro di infermiera professionale con passione ed entusiasmo. Accolse lo straniero che l'aveva aiutata, nella sua casa, che era piccola, ma pulita ed aggraziata. Raccontò che da qualche anno faceva parte di una Associazione di medici e infermieri che dedicavano una parte del loro tempo ai paesi del Terzo Mondo; perciò si recava periodicamente in Brasile per lavorare nelle “favelas” con i bambini più diseredati ed abbandonati per strada. Promotore di questa iniziativa era stato, qualche anno prima, un medico di origine pugliese, ormai anziano ed in pensione, Antonio. Egli aveva spinto i suoi giovani colleghi, quasi tutti ex contestatori, a “testimoniare” – come lui diceva – le loro idee politiche. Nel '68 non avevano forse gridato nelle piazze che volevano cambiare la faccia della terra? Ed allora che cominciassero a cambiarla con le loro mani! Anche Antonio, da giovane, aveva fatto dei grandi progetti rivoluzionari. Si era proposto, ai suoi tempi, di “lasciare il mondo un po' meno peggio di come lo aveva trovato” e perciò, come medico del Comune, si era dedicato, senza risparmio, alla parte più povera della popolazione. Saimir andò a trovarlo, con Marcella, poco prima della sua morte. Conversarono a lungo e si intesero magnificamente. Al momento di salutarsi, Antonio battendogli una mano sulla spalla, gli disse: “Anche tu sei di quelli che vogliono raddrizzare le gambe ai cani? Ho capito, tu vuoi riscattare la tua terra di origine! Sono contento che ci siano dei giovani come te!”. Saimir fu molto colpito dalla lucidità di pensiero e dalla capacità di persuasione dell'anziano amico e continuò a parlarne appassionatamente con Marcella, mentre l'accompagnava a casa. Il giovane ascoltava con piacere, dalla ragazza, i racconti di quei paesi lontani dove lei lavorava e non poteva fare a meno di pensare alla sua terra, priva di una classe politica decente e tanto bisognosa non di parole, ma di aiuti concreti, ad esempio, di scuole di arti e mestieri, di corsi professionali, come quelli che il gruppo di volenterosi organizzava in Brasile. “Se qualcuno ti chiede un pesce, tu insegnagli a pescare”, era il motto dell'Associazione. E così, in quel villaggio del Sudamerica, era sorta una piccola scuola serale per adulti ed un dispensario, in cui gente del posto divulgava le conoscenze igieniche più elementari, dalla cura delle piccole malattie dei bambini, al controllo delle nascite, alla corretta preparazione del cibo ed altro ancora. Marcella era anche una donna appassionata di musica e di teatro ed invitò il nuovo amico ad assistere ad alcuni concerti a cui lei era abbonata. Saimir intanto, la osservava attentamente: qualche punto debole doveva pure averlo, perbacco! Per esempio, era piuttosto impulsiva ed impaziente: infatti seppe che c'erano state, all'interno dell'Associazione, discussioni anche accese, in cui le sue prese di posizione piuttosto nette, avevano fatto allontanare alcuni elementi un tantino suscettibili. Così, anche col nuovo amico, la sua franchezza di linguaggio creò qualche piccolo malinteso, causato anche dalla non completa padronanza dell'italiano da parte del giovane, malinteso che comunque si appianò facilmente. C'era poi un'altra particolarità, che stupì un uomo come Saimir, abituato a spaccare il capello in quattro, quando si trattava di soldi. Marcella pareva non curarsi affatto delle questioni di denaro. Come facesse a far quadrare i bilanci a fine mese, era un mistero. Ma poi il giovane pensò che, in fondo, lei aveva uno stipendio fisso e perciò ce la faceva ad andare avanti. Adogni modo, se qualcuno doveva andare a vivere con lei, non era il caso di affidarle la contabilità. Nel frattempo, la frequentazione tra i due si fece man mano più assidua e Saimir cominciò a parlare del suo paese, della preoccupazione di non poter far nulla per cambiare le cose. Marcella ascoltava attentamente e gli porgeva suggerimenti di vario tipo, scaturiti dalla sua esperienza in Brasile. L'amicizia si consolidò abbastanza da poter passare a discorsi più personali. Lui le raccontò della sua vita e la ragazza descrisse la sua: era stata fidanzata per parecchio tempo con uno dei medici dell'Associazione, poi incomprensioni di vario tipo avevano alterato il loro rapporto, la famiglia di lui non gradiva un matrimonio con una semplice infermiera e così lei era rimasta sola e legata unicamente al suo lavoro. Mentre raccontava le sue vicende, le uscì di bocca una battuta che riuscì a farli ridere di gusto tutti e due: “Insomma siamo due vermi solitari! Perché non cerchi una “vermessa” che ti faccia cambiare la situazione?”. La risata liberatoria schiarì l'atmosfera che stava diventando un po' troppo patetica e carica di tensioni. Stava nascendo ormai qualcosa che li legava sempre di più. Anche la paura della solitudine giocava il suo ruolo: poter tornare a casa e sapere che si potevano scambiare due parole con qualcuno e non solo due parole. Qualche timido tentativo di vicinanza fisica, una stretta di mano un poco più lunga, uno sfiorarsi dei fianchi mentre passeggiavano, diventavano, nell'immaginario di lui, un pensiero ossessivo ed insieme imbarazzante. Si comportavano come due adolescenti alle prime armi; a Saimir venne in mente una frase della nonna: “Il cane scottato ha paura dell'acqua tiepida!” ed anche allora gli venne da ridere. Però erano giovani e le cose seguivano il loro corso naturale. Finalmente fu lei a prendere con dolcezza l'iniziativa e per un momento tutti e due dimenticarono le esperienze precedenti finite male. In quel momento erano loro due e basta. Marcella, con molta spregiudicatezza, propose allora di vivere insieme a casa sua, ma c'era da programmare il futuro. In Albania i vecchi genitori erano sempre in attesa del loro figlio primogenito, che, secondo le usanze, doveva tenerli in casa. Marcella, da donna pratica com'era, progettava invece una casetta indipendente, magari vicina a quella dei futuri suoceri. “Vicini, ma non troppo” - diceva. E poi rivendicava per sé la possibilità di muoversi e di continuare la sua opera col gruppo dei medici in Brasile. Saimir rimase per parecchi giorni perplesso, doveva affrontare da solo molti problemi e, per la prima volta, non vedeva chiaro davanti a sé. Mentre tornava al suo alloggio, gli venivano in mente le parole di una vecchia canzone: “Come farò, a dire a mia madre che ho paura?” E la andava canticchiando, poi gli venne da ridere, perché si ricordò che quella canzone De Andrè l'aveva scritta a proposito dei nazisti e dei campi di concentramento. Bè, insomma, i suoi problemi non erano poi così tragici! Così decise di parlarne col suo parente più maturo, Ilir e con sua moglie Edlira, inseriti ormai stabilmente nella società veneziana. La donna si rese subito conto che la proposta di Marcella era vantaggiosa per tutti. Anche lei, a suo tempo, aveva dovuto lottare a lungo per convincere i suoi genitori a trasferirsi a Tirana e ad accettare modi di vivere diversi da quelli del piccolo villaggio in cui era nata. Ormai i tempi erano cambiati ed i valori tradizionali, pur degni di rispetto per molti versi, non erano intoccabili. Anche Ilir incoraggiò il giovane parente a non perdere l'amicizia e l'amore di una donna come Marcella che, anche nella società italiana, non era persona facile da trovare. Al paese i vecchi amici avrebbero ridacchiato parecchio sul suo matrimonio con una ragazza che era stata già fidanzata con un altro, ma la cosa non avrebbe dovuto importargli più di tanto. “La nuova Albania sei tu, che hai il coraggio di tornare laggiù a cambiare le cose, non quei fannulloni che stanno tutto il giorno ad oziare al bar e si fanno mantenere dalle loro donne che lavorano. Non aver paura, che il mondo va avanti proprio grazie a persone come te. Purtroppo l'esperienza passata ti brucia ancora, ma è facile sbagliare la prima volta”. Queste erano le considerazioni dell'amico e parente che conosceva bene l'ambiente dove Saimir doveva ricominciare a vivere. Dopo un po' di tempo, Marcella decise di fare una visitina al paese che nei progetti sarebbe stato il suo. La cosa andò per il meglio, grazie alla sua capacità di gestire anche le situazioni più difficili e di mediare i contrasti, cercando comunque di non tirare subito le somme e di non fare passi falsi con la sua abituale impulsività. Saimir intanto aveva raggranellato il denaro sufficiente a costruire, nel suo paese, l'officina che aveva sempre sognato e Marcella, con la vendita dell'abitazione di Mestre, riuscì a comprare una casetta a poca distanza da quella dei futuri suoceri. Intanto la ragazza aveva già notato in alcune donne del posto, a cominciare dalle future cognate, un interesse al suo lavoro di infermiera professionale, esperta di ambienti bisognosi di aiuto e sentiva intorno a sé, accanto alla diffidenza di alcune persone, anche l'ammirazione di altre, specialmente tra le nuove generazioni. In seguito, con felice intuizione, pensò di utilizzare le energie positive che le varie chiese cristiane, la cattolica soprattutto, stavano impiegando nei villaggi vicini: prese contatto con un gruppo Scout italiano, che organizzava periodicamente campi di lavoro in Albania; lì trovò alleati per la sua opera di ristrutturazione economica, culturale ed umana. E qui chiudiamo la nostra storia. Che dire ancora? Il lieto fine sembra scontato; ma per ora lasciamo i nostri protagonisti alle prese con la loro realtà quotidiana. Insediarsi in una società poco disponibile ai cambiamenti, richiede tempo e pazienza. Non sappiamo poi se i due giovani “vissero felici e contenti”, noi d'ora in avanti seguiremo da lontano la loro opera e ci auguriamo che riescano nei loro intenti. Liliana
Autore: Gadaleta Minervini
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