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Ada De Judicibus Lisena Ca digghye sci pee l'àrie  
15 gennaio 2007

Università Popolare. Una serata, come precisa nella sua lucida introduzione il Preside Giovanni De Gennaro, nata con l'intento di 'raccogliere le tante anime di una poetessa e farne una sola'. La poetessa in questione è Ada De Judicibus Lisena. A guidarci in un evocativo itinerario nella sua produzione la professoressa Ottavia Sgherza, con l'ausilio delle letture di Lucia Annese, che recita le liriche con un'efficacissima intonazione a metà tra l'estatico e il trasognato, e della stessa Ada, che legge i propri componimenti con la sensibilità appannaggio solo di chi conosce le pieghe più riposte di un testo. “La poesia d'Ada – asserisce la relatrice – non è mai gioco intellettualistico, ma adesione totale alla vita. Poesia che nasce dal vissuto, dalla concretezza delle cose. È l'incanto di un'acchiappanuvole, che c'induce a sentire il fruscio degli alberi, il canto degli uccelli...”. Ottavia Sgherza ripercorre con tratti rapidi e decisi l'evolversi della lirica novecentesca, dall''ermetismo criptico' al Gruppo '63, dalla ripresa dell'impegno politico dopo il 1968 a un ritorno al ripiegamento interiore, allo scavo piscologico. È quest'ultima la linea poetica cui sembra aderire la De Judicibus. “Nessuna congenialità con la poesia visionaria, orfica. Ada ama la scrittura limpida, chiara, onesta”. Scrittura che si traduce in “viaggio nelle regioni dello spirito”, negli anditi più celati di un'anima inquieta, “raccolta in una solitudine di petrarchesca memoria”, “sospesa nel limbo del proprio io” e perennemente in cerca dell'armonia. Da un microcosmo, che anela alla fine del caos, scaturisce la poesia, che 'illumina' le giornate e “rende magica la grigia e impoetica realtà”. Così anche la poetessa-gazza può spogliarsi della severità della 'veste monacale', che la contraddistingue, per gareggiare con la bellezza iridescente del pavone. Dall'atmosfera di claustrale nascondimento che permea la sua lirica talvolta la De Judicibus racconta qualcosa di sé: l'auto-narrazione ne fa una dama dai lineamenti vagamente rétro, una figura da dipinto di Ensor, sempre 'astratta', stupita. Talmente fuori dalla realtà da rischiare di incappare in una pozzanghera, suscitando il riso di una 'donna accorta dai piedi asciutti', forse ammiccante alla servetta tracia, che si fece beffe di Talete caduto in un pozzo. “Ada – prosegue la prof.ssa Sgherza – ricerca un senso della vita, significato che continuamente sfugge o forse non esiste. Il suo è un io problematico, franto, che piange e sorride in un colloquio continuo con se stesso”. Un io che impatta nei limiti, per poi pervenire alla consapevolezza che “il male del vivere è nella natura stessa”, nell'incomunicabilità che separa anche le anime fisicamente più vicine e rende ciascuno “terra inesplorata” dall'altro. Terminata l'introduzione critica ci lasciamo affascinare dall'incanto della poesia. Rincorriamo le suggestioni, che traspirano dalle case fatiscenti del borgo antico, luoghi della memoria in parte ancora pregni dell'odore d'antiche madie. Forse capaci di restituirci “risate rosari / gemiti di dolore più indifeso”, forse no... Il loro dialetto “arcaico pietroso” sembra rivivere nel brontolio divertito della nonna d'Ada e l'esclamazione-imprecazione “Ca digghye sci pee l'àrie” appare, a distanza d'anni, profezia dell'epifania poetica. Quasi fosse propaggine d'escursioni aeree verificatesi sin dall'infanzia, la vena d'Ada talvolta ama divertirsi traducendo in contesti scanzonati le icone per antonomasia della melanconia. Come la Luna, non più “pura vestale del cielo”, ma “ridente e rotonda”, “bionda borghese di Rubens”. Eppure nelle sue 'partiture' è proprio la tristezza la nota prevalente, un'elegia del tempus fugiens, che “divide gli amori / e disperde le cose”, incontrando un solo ostacolo al suo disseminare oblio e disaffezione: la fede nella vita, che ciascuno di noi alimenta in sé.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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