La bomba è esplosa: la notizia è già rimbalzata da un quotidiano all’altro, le associazioni di categoria temono il peggio, tra le alte sfere della scienza si discute e ci si scontra, mentre la politica rassicura nel segno della prudenza e della fiducia nella provvidenza…
Ebbene questa volta l’iprite (di cui QUINDICI ha dato - per primo e in più occasioni notizie dettagliate e ampi servizi) non è passata accidentalmente soltanto sulla pelle dei pescatori per dare dimostrazione della presenza nei nostri mari, ma la si è andata a cercare con l’intento di svelarne ogni mistero e farne venire alla luce gli effetti pure esercitati nel sommerso mondo degli ecosistemi marini.
La ricerca incriminata è quella dell’Icram - istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare – che ha iniziato le sue ricerche nelle acque a 35 miglia al largo del porto di Molfetta, in una delle quattro aree di affondamento individuate a sul del Gargano. Acab – armi chimiche affondate e benthos – è il nome del progetto di ricerca voluto dal ministero dell’ambiente dopo ben 50 anni di silenzi protratti e di segreti militari non ancora del tutto dissolti.
Gli ordigni ritrovati in quest’area pari a 10 miglia quadrate, e individuati come bersagli di interesse, ammontano a 102, dei quali 16 sono stati ispezionati con robot filoguidati e 11 sono risultati essere ordigni a carica chimica corrosi.
Da questi, quindi, la possibilità, esistita e tuttora esistente, che l’aggressivo chimico contenuto possa fuoriuscire e interagire con i delicati ecosistemi marini a danno di flora e fauna ittica.
Si è parlato di iprite, naturalmente, punto di partenza tra l’altro di questa ricerca, venuta dopo anni di incidenti e gravissime ustioni, ma anche di arsenico, la vera novità, oggetto pure di allarmismi forse eccessivi e in ogni caso fuorvianti.
Nelle bombe c’è anche dell’altro: adamsite, fosgene, lewisite per un totale di ben 18 aggressivi chimici persistenti, in grado cioè non soltanto di provocare danni all’ecosistema, ma di perdurare in quest’azione nociva per tempi assai lunghi.
“Abbiamo prelevato campioni di acqua, sedimenti e pesci sottoponendoli poi a vari metodi di analisi - ha detto Ezio Amato ricercatore dell’Icram – e, confrontando i risultati con campioni di altra provenienza, ma di stessa natura, abbiamo riscontrato, ad esempio, un notevolissimo scarto rispetto alla norma nei livelli di concentrazione di arsenico contenuto nei tessuti epatici e cutanei di alcuni pesci”.
Questo non significa che ci possano essere conseguenze sull’uomo: le concentrazioni rinvenute sono, è vero assai più alte rispetto ai livelli consueti e tali da produrre uno stato di sofferenza e stress nella fauna ittica, ma sono di gran lunga inferiori alle soglie di tollerabilità dell’organismo umano, così come ha tenuto a precisare lo stesso Ezio Amato.
D'altra parte, quand'anche inesistenti fossero le ripercussioni sulla salute degli uomini, non sarebbe affatto un atto di intelligenza consolarsi e lasciare tutto al suo posto: il fatto che il nostro mare si stia spopolando in maniera esponenziale e letale per la pesca, dimostra come indispensabile anche per l'economia sia occuparsi di queste questioni.
Per evitare rischi di poca attendibilità, lo studio ha avuto per oggetto specie ittiche stanziali - come lo scorfano da fondale – costantemente sottoposte, quindi, all’esposizione di queste sostanze dato lo stato fortemente degradato degli ordigni, fatto per altro comprensibile dopo 50 anni.
“Abrasioni e lesioni cutanee sono i sintomi più rinvenuti sui campioni di pesce analizzati, ma – ha ribadito Ezio Amato – la conoscenza degli effetti sulla vita dei pesci è ancora all’esame dei ricercatori”.
Non sono poche le riserve avanzate da altri ambienti di ricerca: per alcuni lo studio dell’Icram sarebbe troppo parziale e addirittura opinabile per i metodi adoperati, per altri questa ricerca finirebbe col creare facili allarmismi, dannosissimi per l’economia di un settore già in stato di profonda crisi quale è quello della pesca molfettese.
In realtà ad alludere alla parzialità dello studio condotto o quanto meno alla necessità di integrarlo proseguendolo è lo stesso rapporto diffuso dall’Icram in cui alla fine si auspica l’avvio di un programma di monitoraggio puntuale per verificare la possibilità e le modalità di bonifica delle aree analizzate.
“La bonifica sembra essere fattibile – ha detto Ezio Amato – ma per adesso è allo studio”. Il precedente più famoso che è quello del mar Baltico e lì si trattò di un fallimento annunciato: le bombe all’iprite erano tantissime e troppo forti i rischi, nonché elevatissimi i costi di bonifica.
Per la verità quanto ai costi, un atto di galanteria della diplomazia inglese sembrerebbe attutire il problema: il ministero della difesa britannico ha ammesso che l’Inghilterra affondò munizioni chimiche al largo della costa barese nel '43, aggiungendo di essere disponibile a finanziare le operazioni di bonifica. Meglio tardi che mai.
Ultime bombe: niente bonifica
Le bombette gialle grandi quanto una lattina di coca cola apparse quest’estate sulle spiagge di Brindisi e di Rodi Garganico, sono un’immagine ancora fresca nella nostra memoria. Erano le bomblets lunghe appena 20 cm e del peso di 300 grammi rilasciate dalle bombe cluster, più note come bombe a grappolo, assai adoperate nella guerra in Kossovo e spesso scaricate inesplose nel nostro mare.
Di bonifica si parlò anche allora e si inventò persino il “fermo bellico”, periodo di sospensione della pesca che avrebbe consentito lo sminamento e che naturalmente sarebbe stato accompagnato da indennizzi ai pescatori.
Che fosse una strategia puramente elettorale – eravamo alla vigilia delle europee – lo si potette intuire già da allora: adesso la conferma arriva dal mancato pagamento degli indennizzi pure promessi entro 90 giorni dall’inizio del fermo.
Di soldi neanche l’ombra, quindi, ma di bombe, invece, tante.
La bonifica, infatti, della quale pure la Marina Militare Italiana non esita a decantare mirabili risultati - il rapporto finale parla della distruzione del 99% degli ordigni rilasciati dagli aerei Nato -, lascia molte perplessità all'interno delle associazioni ambientaliste, nella Legambiente, per esempio, ma non solo. Intanto, la nostra zona non è stata affatto toccata da queste operazioni: dell'alto Adriatico si è occupata la Marina Militare Italiana, il medio e basso Adriatico è stato affidato invece ai cacciamine della Nato, salvo, però, a porre come limite meridionale degli interventi di bonifica il Gargano: la costa pugliese può attendere.
Inoltre si brancola ancora nell'incertezza per quel che riguarda la individuazione puntuale delle zone di rilascio - Jettison areas - , anche se peso e dimensioni delle bombe lasciano credere che il movimento delle masse d'acqua possa averle spostate anche di molto - : cinque, sei, il numero delle aree incriminate è variato più volte e persino la Capitaneria di porto di Molfetta appare citata in rapporti dell'unità di crisi per aver diffuso una mappa indicante 11 siti di rilascio, di cui due entro le 12 miglia - pubblicata da Quindici, giugno '99 - , mappa che non è stata riconosciuta poi dalle autorità italiane, né dalla Nato, fino a qualche giorno fa, quando con i soliti ritardi la sua attendibilità è stata invece finalmente ammessa.
Al segreto, più volte in questi mesi sollevato, si è aggiunto anche una sorta di "fatalismo d'interesse", secondo il quale nulla si potrebbe fare per queste bombe, data la scarsità dei mezzi di cui dispone la Marina Militare Italiana, visto che i cacciamine non sarebbero in grado di individuare bombe così piccole e a così elevate profondità, elemento questo, non determinante in verità, visto che le bombe si sono pescate anche negli ultimi mesi in aree assai vicine alla costa.
Inoltre, il pericolo per le autorità militari sarebbe ormai stato sventato o, come un po’ più onestamente si dichiara, ricondotto ai livelli normali, precedenti il conflitto in Kosovo: eppure molte delle bombe a grappolo sono state rinvenute aperte e questo, come sottolinea l'Icram, indica che le bomblets più piccole contenute sono tuttora disperse in mare, in un numero rilevante, forse dell'ordine delle migliaia; incalcolabile e però affatto considerato è inoltre l'impatto ambientale che il rilascio ha sicuramente provocato per la tossicità dei contenuti degli ordigni, dati anche i sospetti, poi diventati anche qui ammissioni, relativi all'impiego di uranio impoverito; gli operatori della pesca, per di più, non sanno assolutamente nulla sulla natura di queste bombe, nei confronti delle quali non saprebbero come comportarsi in caso di incontri ravvicinati, fino ad ora limitati a residui bellici vecchi di 50 anni; tutto ciò senza dimenticare che ci sono larghe zone, come la nostra, ritenute sicure per assioma, tanto da non meritare neppure uno straccio di bonifica. Forse la si attende dai pescatori. Massimiliano Piscitelli
Tiziana Ragno
Bombofobie a confronto
“Le bombe qui ci sono sempre state. Io non ho più neppure paura di ritrovarmele nella rete, mici sono abituato e voi invece sembrate accorgervene soltanto adesso”.
Sono queste le parole con cui un pescatore ha risposto ai nostri interrogativi sugli ordigni, apparsi forse persino irrispettosi nei confronti di una realtà che con le bombe ha imparato a convivere. Altri invece ci hanno confessato la “bombofobia” alla quale non si sono affatto abituati: Vito, un bambino che spesso “va per mare” a bordo del motopeschereccio del papà ci ha raccontato di quando “una bomba grande l’abbiamo consegnata agli artificieri, quelli dietro il duomo”, aggiungendo che “le bombe stanno pure nel porto”.
E questo ci è stato confermato anche da un altro pescatore il quale ha ammesso di aver lui stesso abbandonato persino dietro i massi del molo pennello una bomba che per l’odore tipico sembrava proprio una di quelle “al gas” – all’iprite, cioè, nel gergo della nostra marineria -, aggiungendo che si tratta di una prassi praticata da molti. Se dunque è già difficile localizzare e mappare le aree interessate dalle bombe, diventa impossibile farlo se si pensa agli spostamenti degli ordigni praticati dai pescatori, impauriti e talora impreparati.
Quello che si dovrebbe fare in caso di rinvenimento di ordigni, è sganciare la rete in cui si fossero impigliati e segnalarne la posizione alle autorità della Guardia Costiera che provvederebbero a farli brillare dagli artificieri. Il tutto con ingenti danni economici subiti dai pescatori che perderebbero rete e ricavato del pescato, senza considerare i tempi di inattività a cui sarebbero costretti per costruirsi nuove attrezzature; del resto il fatto che spesso queste pesche indesiderate avvengano oltre le venti miglia dove non è consentito pescare, ne impediscono naturalmente la denuncia.
Che ci sia tanta omertà tra i pescatori, l’abbiamo potuto toccare con mano: omertà dettata dalla necessità, si potrebbe dire, da una crisi strisciante che arriva a far presumere persino una imminente dichiarazione di crisi del settore con una successiva riduzione del 30% – 50% dei pescherecci ad oggi in attività; una omertà dettata dallo stato di miseria che costringe i pescatori a frequentare anche zone minate e vietate alla pesca, pur di portare a terra qualcosa.
“Lavoriamo come schiavi in mezzo al mare, come gli ignoranti, senza sapere niente di ciò che succede sulla terra: lavoriamo e basta e da qui, dalla terraferma, nessuno si preoccupa di noi, nessuno porta avanti i nostri problemi”.
Lavoratori allo sbando quindi, senza rappresentanza politica, senza fiducia in quella sindacale, educati a diffidare di chi abita la terraferma e a sapersi gestire in autonomia i pericoli del proprio lembo di mare. Tiziana Ragno
Gavetone: la parola agli artificieri
In estate dicesi Gavetone tratto di costa affollatissimo di giovani e giovanissimi "disposti a rinunciare" alle comodità dei lidi e ad accontentarsi di una delle ormai poche battigie rimaste indenni dal proliferare delle spiagge private.
Durante gli altri mesi dell'anno chi dice Gavetone, dice cartucce di mitragliatrici, granate, bossoli, "farfalle della morte" e artificieri, sommozzatori della Marina Militare, esplosioni quotidiane.
"Arriviamo a recuperare anche 100 ordigni al giorno" - ci ha detto il comandante Fabio Serra, capitano di corvetta del nucleo Sdai -sminamento e difesa anti mezzi insidiosi- di Ancona.
La bonifica, infatti, iniziata nel '96, ha portato fino ad ora alla luce circa 80000 ordigni di natura e dimensioni varie - dalle bombe a mano, le più numerose, ai proiettili di artiglieria, alle mine anticarro: le cifre fanno pensare che le operazioni di sminamento finora compiute abbiano interessato l'80% del totale delle bombe presenti.
Come sia finito un numero così elevato di ordigni in un'area pure così circoscritta - un fazzoletto compreso entro i 300 metri dalla costa, per un tratto di spiaggia lungo 1 Km - i molfettesi lo sanno bene: dopo la seconda guerra mondiale gli alleati si sbarazzarono di enormi quantità di materiale bellico, per anni disseminato nel nostro territorio, utilizzando il mare come discarica, anche in fondali poco profondi; dagli incidenti ai pescatori che subito dopo seguirono, qualcuno pensò bene di trarre profitto: alcune imprese di allora, compresa quella del molfettese Gambardella, avviarono una bonifica, abbastanza sommaria per la verità, finalizzata allo sconfezionamento degli ordigni e alla vendita del metallo ricavato; la base operativa di questi approssimativi recuperi fu proprio Torre Gavetone, dove le munizioni selezionate, spessissimo scartate, erano ributtate in mare.
Poi vennero le operazioni di sminamento degli anni '70 e tuttavia servirono a poco: certo, questa che si avvia alla conclusione è la più radicale, soprattutto per la natura più sofisticata dei mezzi a disposizione della marina.
Oggi si usa il metal-detector e si scava nelle zone indicate con grande precisione, "da archeologi", spiega il comandante.
"I brillamenti di cui ci occupiamo noi - ha precisato il comandante Serra - riguardano solo gli ordigni al tritolo: ne facciamo un deposito in acqua, raccogliendoli in "bidoni" ad oltre un miglio dalla costa, in zone fangose, prive di scogliere o di secche, evitando, cioè, zone ad alta concentrazione di fauna ittica; i brillamenti avvengono inoltre a 10m di profondità, a mezz'acqua, per ridurre il più possibile l'onda d'urto dell'esplosione sul fondale profondo 30m".
Altre bombe, invece, contengono fosforo: sono i cosiddetti ordigni a caricamento speciale, riconoscibili perché più leggeri, affidati all'esercito e fatti brillare non in acqua, ma sulla terra ferma: il fosforo, a contatto con l'aria, brucia fino ad estinguersi.
In realtà alcuni, tra cui Angelo Neve, presidente dell'associazione San Nicola per la Pace, hanno avanzato perplessità: parlano di sistema arcaico adoperato dalla Marina Militare, che ha ritenuto opportuno far brillare gli ordigni direttamente in mare, provocando così la distruzione di flora e fauna marina.
Il Tnt -tritolo- infatti, come riporta anche un allegato alla citata ricerca dell'Icram, è tossico per tutti gli organismi viventi in ambienti acquatici, sui quali produce effetti anche cronici; è persistente in mare e, cosa assai grave, per la sua alta tendenza a sciogliersi nei grassi, entra con facilità nella catena alimentare.
Molti a questo punto griderebbero all'allarmismo, invitando i mezzi d'informazione alla prudenza: eppure proprio in questo caso non sarebbe affatto prudente lasciare che la gente non sappia o assistere all'iper-affollamento estivo di un'area, per altro interdetta alla balneazione, in ogni caso contaminata per aver ospitato per mezzo secolo bombe oggi in parte corrose.
Bagni al tritolo? No, grazie.
Tiziana Ragno