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“Viva l’Italia e morte al re!”
15 marzo 2021

Mauro Altomare pubblicò nel 1911 il suo lavoro “Molfetta nel Risorgimento politico italiano”. Esso costituisce tuttora la principale fonte a stampa per conoscere la storia della nostra città nei moti patriottici che vanno dal 1820 al 1870. Altomare consultò una discreta bibliografia, vide molti documenti del nostro Archivio comunale, di quello statale di Bari, e si avvalse anche di importanti carteggi privati, quali quello di Carmine Gallo fu Luigi, Giovanni Fontana fu Sergio, Pasquale Menelao, che al momento risultano perduti. Insomma, la sua è una lodevole opera di compilazione, tuttora indispensabile nonostante l’età e il taglio dichiaratamente patriottico. L’ho consultata con profitto, integrandola con altre fonti, per tracciare le brevi note biografiche di un garibaldino molfettese che, insieme a Giovanni Cozzoli, Liborio Romano, e tanti altri, cospirò per l’unità d’Italia. Guglielmo Gallo nacque a Molfetta il 22 aprile 1826. Nella bottega del padre Carmine stimato ebanista e fervente carbonaro, ascoltò insieme ai fratelli i discorsi di coloro che erano definiti nei rapporti della polizia “attendibili”, o “effervescenti”. Un altro covo di cospiratori era l’ammezzato del caffè di Pasquale Parvanà al Borgo. Molfetta, all’epoca, era certamente il centro della Terra di Bari con il gruppo più numeroso di sovversivi. Su di tutti imperava Giovanni Cozzoli, infaticabile orditore di congiure, e bombarolo impenitente. Non possiamo fermarci sul ’48 molfettese. Con maggiori ragguagli, un buon regista potrebbe ricavarci uno splendido film d’azione. Il 28 luglio di quell’anno, il generale borbonico Marcantonio Colonna, proveniente da Bisceglie con tre squadroni di cavalleria, si ferma alla Madonna dei Martiri, e intima la resa immediata dei rivoltosi, e la consegna di tutte le armi. Chi poté fuggì, gli altri furono catturati nei giorni successivi. Nel processo che seguì, Guglielmo Gallo fu condannato in contumacia a 28 anni di galera. Cominciava per lui l’esilio e la resa dei conti contro il Borbone. Il 9 febbraio 1849 fu proclamata sul Campidoglio la Repubblica Romana. Il 29 marzo dello stesso anno, a fronte della minacciata invasione austriaca e francese, fu nominato un Triunvirato plenipotenziario, composto da Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi. La storia di quella Repubblica e la sua difesa contro l’attacco francese, furono uno degli episodi più eroici del nostro Risorgimento: innumerevoli gli atti di valore dei giovani garibaldini. Sappiamo che tra i difensori accorsero tre molfettesi in fuga dalle galere borboniche: Guglielmo Gallo, Giovanni Cozzoli, e Liborio Romano. I tre furono in un primo tempo inquadrati nella Legione degli Esuli Italiani. Successivamente furono assegnati alla Brigata Masi. L’esercito repubblicano era comandato dal generale Pietro Roselli: Carlo Pisacane, il futuro sfortunato eroe di Sapri, fu il suo Capo di Stato Maggiore. L’armata fu divisa in quattro Brigate. La prima, al comando di Garibaldi, comprendeva, tra l’altro, la sua famosa Legione; la seconda, guidata dal colonnello Luigi Masi, era forte di due reggimenti, e difendeva le mura tra Porta Angelica e Porta Cavalleggeri; la terza era formata da due reggimenti di cavalleria al comando del colonnello Savini; la quarta, guidata dal colonnello Bartolomeo Galletti, schierava due reggimenti di fucilieri. In tutto, circa 9.000 volontari. Il 3 giugno Garibaldi affronta con 6.000 uomini 16.000 francesi, e combatte per l’intera giornata alla testa della sua Legione con incredibile coraggio. Morirono 1.000 volontari, muore Enrico Dandolo, muore Goffredo Mameli. Scrive Alfonso Scirocco: “L’eroismo con cui i giovani di ogni regione della penisola testimoniano la loro fede nei destini dell’Italia, meraviglia l’Europa, e fa della giornata del 3 giugno la prima consacrazione della unità nazionale”. Nel corso del mese i francesi circondano la città, la bombardano, e consolidano la loro schiacciante superiorità di uomini e mezzi. Il 3 luglio entrano in Roma. Come abbiamo già detto, Gallo, Romano e Cozzoli, erano stati inquadrati nella Brigata Masi, schierata tra Porta Angelica e Porta Cavalleggeri. La stessa Brigata, in appoggio a Garibaldi con la sua Legione, e ai bersaglieri di Luciano Manara, farà delle scorrerie a sud oltre il confine napoletano. Manara cadrà alla testa del suo battaglione la notte del 30 giugno nella difesa di Villa Spada. Alcuni giorni dopo morirà Andres Aguyàr, l’ex schiavo di colore che Garibaldi aveva portato dal Sud America dopo averlo liberato, e che lo seguiva come un’ombra. La condotta della guerra evidenziò le diverse teorie militari di Pisacane e Garibaldi: il primo fedele ai canoni della strategia classica e insofferente alle intemperanze dei volontari; il secondo propenso ai fulminei colpi di mano, con tutti i rischi che comportavano, e intrapresi eludendo spesso gli ordini di Roselli e del futuro eroe di Sapri. Dopo la sconfitta della Repubblica i nostri tre concittadini lasciarono Roma ed intrapresero la via fortunosa di un decennale esilio, non sappiamo se insieme, oppure ognuno per la sua strada. Sulla loro partecipazione alla difesa della Repubblica, Altomare pubblica due documenti notarili, dei quali riportiamo i brani salienti. Il 19 aprile del 1864, in Molfetta, alla presenza del notaio Ignazio Fontana, e di altri testimoni, Giovanni Cozzoli rilascia, una dichiarazione giurata dove si legge tra l’altro “che allor quando nel 1848 e 1849 era comandante nella Brigata Masi, tra cinquanta valorosi cittadini emigrati napoletani i quali così valorosamente difesero la linea dei Giardini del Quirinale, faceva parte di detta Brigata, prestò servizio, e si distinse per valore il signor Guglielmo Gallo del fu Carmine, di questo Mandamento”. Il 25 luglio del 1865, in presenza dello stesso Notaio, Liborio Romano del fu Michele, dichiara che “dal gennaro del 1848, epoca dei primi sconvolgimenti politici nelle Puglie, il sig. Guglielmo Gallo del fu Carmine, di Molfetta, fu uno dei più caldi cospiratori contro il governo borbonico, e prese parte ai fatti avvenuti in maggio; e nel luglio dello stesso anno emigrò in Roma con esso dichiarante, ove pure contribuì alla caduta del governo clericale. Arruolatosi prima nella Legione degli Esuli Italiani, al servizio del governo provvisorio, nel 30 aprile 1849 tale Legione fu incorporata nella Brigata Masi, al servizio della Repubblica Romana. A’ dichiarato inoltre che il predetto sig. Gallo, unitamente a 50 valorosi emigrati napoletani, si distinse alla difesa dei giardini del Quirinale, valorosamente, e che prestò servizio fino all’entrata dei francesi in Roma”. Nel decennio che va dalla sconfitta della Repubblica Romana alla seconda guerra di Indipendenza, si consumò la crisi della iniziativa mazziniana e del partito d’Azione. La strategia del “coltello”, della bomba del sacrificio fine a se stesso non bastava più. La parola d’ordine che con malcelata rassegnazione il gruppo Garibaldi- Bertani, cui aderirono tanti altri ex democratici e repubblicani, adottò, vale a dire “l’Italia chi la fa se la prenda”, fu accolta con entusiasmo dai moderati, dai Savoia e dai loro satelliti. I quali infatti, alla fine, “se la presero”, senza tanti complimenti, e senza ringraziare anzi, sparando, come accadde in Aspromonte. Ritroviamo ora il nostro Guglielmo al tempo dei Mille, coinvolto in un’altra avventura. La vicenda è un po’ complicata, rocambolesca e le fonti contraddittorie. Come è noto, dopo la prima del 5 maggio 1860, seguirono per la Sicilia altre spedizioni: il numero e le generalità dei partecipanti non è stato ancora chiarito. E’ certo comunque che tra i circa 1.200 garibaldini che il 5 maggio si imbarcano a Quarto, vi è Guglielmo. Due giorni dopo 65 uomini, compreso il Nostro, sbarcano a Talamone dal “Lombardo”, al comando del capitano Callimaco Zambianchi. Garibaldi che lo conosce bene, gli ordina di assumere il comando della compagnia e di effettuare una diversione a sud verso il Lazio per tentare di suscitare una sollevazione. Alla formazione di Zambianchi si aggregano altri 200 garibaldini provenienti da altri piccoli sbarchi sul litorale toscano. Il battaglione è privo di ordini precisi, di armamento adeguato e di vettovaglie. Il 19 maggio si scontra oltre confine con una formazione pontificia: Guglielmo si fa onore e viene promosso sergente. Zambianchi si ritira in Toscana, ma viene fermato da un reggimento sabaudo che rilascia poi i volontari, dopo averli trattenuti per diversi giorni e disarmati. Una parte tenta di raggiungere la Sicilia, altri la Liguria, altri ancora tornano a casa perché si rifiutano di combattere per i Savoia. Callimaco Zambianchi è un personaggio che merita qualche commento. Nato a Forlì nel 1811 partecipò ai moti di Romagna nel 1831; esulò in Francia e poi in America Latina, dove a Montevideo conobbe Garibaldi e ne divenne amico, militando nella Legione Italiana. Combatté nella campagna di Lombardia nell’48, e un anno dopo difese la Repubblica Romana col grado di maggiore. Fuggito nuovamente in Argentina, nel 1860 è a Genova con Garibaldi e si imbarca con lui a Quarto. Dopo il fallimento della diversione toscana, fu arrestato per ordine di Cavour per motivi politici mai chiariti. Liberato dopo un anno, tornò in Argentina, dove morì il 13 febbraio 1862. Tipico esponente del garibaldinismo “irregolare” repubblicano radicale, audacissimo, fu accusato di aver ordinato durante la Repubblica Romana, l’esecuzione di alcuni religiosi, ritenuti spie. “Quel maledetto Zambianchi!” lo definisce Giuliano Oliva, e gli fa eco Giuseppe Cesare Abba nelle sue “Noterelle”: “un sanguinario sterminatore di monaci”. Forse Callimaco andava un po’ troppo per le spicce, e forse fu anche un mezzo avventuriero, una testa calda; ma il Risorgimento non fu una passeggiata: personaggi “alla Zambianchi” vi fiorirono in abbondanza, finendo poi beatificati nei libri di storia. A Molfetta esiste una strada intitolata a Felice Orsini, il mazziniano che nel 1858 a Parigi gettò una bomba che causò 12 morti. Il terrorista di oggi può diventare l’eroe di domani. Abbiamo lasciato il nostro Guglielmo dopo l’esito infausto della diversione Zambianchi. Più volte fermato dai posti di blocco delle truppe piemontesi, attraversò la Toscana, la Liguria orientale, e raggiunse infine Genova, dove fu inquadrato nel secondo battaglione della prima Brigata Assanti, della sedicesima Divisione Cosenz. Questa unità, che costituiva la terza spedizione di rinforzo a Garibaldi, salpò da Genova il 2 luglio e sbarcò a Palermo il 5, con ottocento volontari. Facciamo ora un passo indietro. La pirofregata a ruote “Veloce” era all’epoca una unità della Marina borbonica. Il 5 luglio 1860 trasportò da Messina a Milazzo 800 soldati, ma nel viaggio di ritorno il capitano Amilcare Anguissola condusse il battello nella rada di Palermo, consegnandolo all’ammiraglio piemontese Persano, che a sua volta lo trasferì alla Marina garibaldina. Con il nome di “Laios Tukory”, un volontario ungherese caduto alla presa di Palermo, la pirofregata partecipò alla campagna, sia come trasporto truppe, sia come contrasto alle manovre della flotta napoletana. Ai primi di agosto Garibaldi e i suoi ufficiali di marina decisero di tentare una azione temeraria, e, se riuscita, di grande effetto propagandistico: la cattura del vascello “Monarca”, ammiraglia della flotta Reale, attraccato nel porto di Castellammare di Stabia, per la sistemazione di un impianto a vapore. Il capitano Giuseppe Vacca, comandante dell’unità, si è accordato con Persano, per la cessione al Piemonte, e non è a bordo; l’ufficiale in seconda, Guglielmo Acton, è rimasto fedele al Re, e presidia la nave con alcuni ufficiali e marinai. L’undici agosto il “Tukory” salpa da Messina con 150 uomini di equipaggio: lo comanda il capitano di corvetta Burone Lercari; a mezzanotte del 13 agosto entra nella rada nemica. Sul battello vi sono due compagnie di bersaglieri scelti, agli ordini del maggiore Polidoro Casalta. Il battaglione è inquadrato nella prima Brigata della diciassettesima Divisione Medici. Gallo è a bordo tra i bersaglieri. Gli assalitori devono tagliare le gomene di canapa che ormeggiano il vascello longitudinalmente al molo, e trainarlo fuori dalla baia, dopo aver legato altre due gomene dalle bitte di prua del “Monarca”, a quelle di poppa del “Tukory”. Purtroppo il vascello, al momento dell’attacco non è ormeggiato longitudinalmente ma perpendicolarmente alla banchina, ed è ancorato alla coperta di prua con la catena di dritta. L’azione diventa più lunga e rischiosa. Il “Tukory”, avvicinatosi, cala in acqua tre scialuppe con a bordo otto picchetti di bersaglieri: in tutto circa 160 guastatori. Guglielmo comanda il sesto, con il compito di tagliare in coperta gli ormeggi di prua. Ordine di silenzio assoluto, pena la morte. Ma il rumore degli scalpelli che non riescono a tagliare le maglie della catena, e le relative bestemmie dei bersaglieri provocano l’allarme. Gli assalitori rientrano sulle scialuppe, una delle quali è squarciata da una delle ruote della pirofregata. Tra i marinai di Acton e i bersaglieri di Casalta ci fu un breve ma intenso scambio di fucileria. Le due scialuppe riuscirono a raggiungere il “Tukory”, che si allontanò a stento per la rottura di una delle due macchine. La sortita era fallita. I garibaldini ebbero 5 morti e 15 feriti: i borbonici un morto e alcuni feriti, tra i quali lo stesso Acton. Tutti i componenti dell’incursione furono elogiati per il loro comportamento durante l’azione. L’undici agosto del 1861 Guglielmo Gallo fu messo in aspettativa dall’esercito italiano, con la pensione annua di 960 lire: dopo 13 anni di esilio e di battaglie ritornava nella sua Molfetta. Non erano anni facili: il brigantaggio imperversava, e l’assetto economico sociale della nuova nazione stentava a consolidarsi. Il Nostro tentò di inserirsi, senza molto successo, in un contesto cittadino profondamente dilaniato da odi e risentimenti. Morì a settant’anni, il 7 febbraio 1896. Forse l’Italia che vedeva non era quella che aveva sognato in gioventù. Eppure nella storia nessun ideale è perduto per sempre. Senza la fede eroica di Mazzini e dei suoi nella Repubblica e nella Libertà, e senza il suo odio implacabile per le tirannidi, nessun Cavour avrebbe mai fatto l’Italia. Dal crepuscolo della democrazia risorgimentale doveva sorgere l’aurora del Socialismo italiano. © Riproduzione riservata

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