Quando la carta stampata era ancora la “regina” del giornalismo e radio e televisione (specie quest’ultima) ne erano le ”ancelle”, anche se sempre più invadenti, l’informazione si basava sull’aurea regola delle cinque “W” e cioè who (chi), what (cosa), where (dove), when (quando) e why (perché).
Bastava rispondere correttamente a questi fondamentali interrogativi e la notizia era corredata di ogni elemento utile per la sua fruizione. Era il tempo della informazione frontale, in cui c’erano gli organi di stampa che producevano e diffondevano notizie e commenti e i lettori che, con più o meno senso critico, leggevano e assorbivano i contenuti.
L’avvento del web e soprattutto la seconda rivoluzione, cioè la carica dei social, ha fatto in modo non solo che l’informazione sia diventata circolare, con i lettori diventati, a loro volta, fonti e produttori di notizie, ma ha portato ad una invasione di “piccoli diavoli” che entrano dovunque. E ti danno in gran quantità notizie, commenti, curiosità, immagini, pettegolezzi, bufale, sciocchezze. Ma anche attentati in diretta, lutti, appelli, battibecchi, polemiche. Di tutto un po’, insomma.
Diciamo che il web riesce a rispondere, più o meno bene e più o meno correttamente, a quattro delle cinque tradizionali e fondamentali domande dell’informazione. A tutte tranne che a una: il perché?
Essendo per sua natura veloce e superficiale, il web lascia in realtà ampi spazi all'approfondimento delle notizie, alla ricerca del perché dei fatti, delle ragioni profonde dei fenomeni e dei problemi di questo tempo impetuosamente nuovo.
Questo perché – come dice padre Francesco Occhetta, vice direttore de “La Civiltà cattolica” e studioso della comunicazione, con la realtà digitale, alla regola delle 5 “W” si aggiunge la regola dei 5C ovvero: “il contesto (context sempre più settoriale; la conversazione (conversation) tra il giornalista e i suoi interlocutori che rende interattivo un articolo; la cura (curation) di saper discernere le fonti separandole dai pettegolezzi o dalle notizie false che girano in Rete; la comunica (community) a cui si rivolge il giornalista e con la quale si confronta; la collaborazione (collaboration) tra operatori dell’informazione, che impone alle redazioni di lavorare tutti nella stessa direzione in un gioco di squadra nuovo che sempre più impedisce a voci fuori dal coro di portare avanti politiche comunicative solitarie”.
Ecco perché – al di là del bisticcio delle parole – è importante sviluppare il perché e cercare di dare risposte ai tempi nuovi. Questo potrà farlo un giornalismo di qualità. Il giornalismo sarà salvato dai perché.