Vere Gordon Childe e il Pulo di Molfetta
di Marco de Santis
Tra gli studiosi di fama internazionale che si sono occupati – sia pure en passant – del Pulo di Molfetta, figura Vere Gordon Childe, archeologo e paletnologo australiano, nato a Sidney il 14 aprile 1892 e morto a Mount Victoria il 19 ottobre 1957.
Dopo aver studiato negli atenei di Sidney e Oxford, il Childe divenne professore di archeologia preistorica all'università di Edimburgo, dove insegnò dal 1926 al 1946. Fu poi docente di archeologia preistorica dell'Europa occidentale e direttore dell'Istituto di Archeologia di Londra fino al 1956.
Il Childe non si dedicò solo all'insegnamento, ma anche alla ricerca sul campo. Realizzò infatti scavi in Scozia, Galles, Europa orientale e Medio Oriente. Due sue opere giovanili sono considerate dei classici della preistoria europea. Si tratta di The Dawn of European Civilization (L'alba della civiltà europea), la cui prima edizione uscì a Londra e New York nel 1927, e di The Danube in Prehistory (Il Danubio nella preistoria), pubblicato ad Oxford nel 1929.
Negli anni della maturità il paletnologo australiano spostò i suoi interessi su un versante più prettamente teorico. Sul piano metodologico Childe ribadì l'utilità della prospettiva etnografica nello studio degli avanzi materiali di una civiltà, insistendo sull'interpretazione dei reperti e dei fatti archeologici in chiave culturale. I manufatti delle diverse epoche, in effetti, spesso possono fornire dati assai rilevanti per interpretare il comportamento socioculturale dell'uomo. Sono di questo periodo i volumi Man Makes Himself (L'uomo crea se stesso), un'esposizione dell'evoluzione parallela della società e della tecnologia, risalente al 1936, e What Happened in History (Che cosa accadde nella storia), un'introduzione all'archeologia preistorica, pubblicata nel 1942.
Rifacendosi, almeno in parte, allo schema di sviluppo sociale di Lewis Henry Morgan e a quello di Marx ed Engels, lo studioso australiano propose un modello evolutivo basato sulle grandi rivoluzioni sociali ed economiche. Secondo il Childe, l'uomo è passato attraverso tre grandi periodi di cambiamento: la “rivoluzione neolitica”, la “rivoluzione urbana” e la “rivoluzione industriale”. Dati i suoi interessi, Childe si sofferma sui primi due stadi.
Secondo l'archeologo, la rivoluzione neolitica è caratterizzata dallo sviluppo di economie agricole nel Medio Oriente fra il 9000 e il 6000 a. C. In questo periodo l'uomo imparò a produrre il cibo e costruì i primi insediamenti stabili legati alle pratiche agricole. Con la rivoluzione agricola l'uomo divenne padrone delle proprie risorse alimentari grazie alla coltivazione di piante e alla domesticazione di animali, in qualche modo affrancandosi dal condizionamento ambientale attraverso l'abilità manuale. Studi successivi hanno indicato un lasso di tempo assai più ampio di quello stimato dal Childe ed evidenziato la complessità e la diversità dei processi coinvolti, rivalutando alcune conquiste tecniche del Paleolitico e rimarcando non solo gli elementi di rottura, ma anche gli elementi di continuità fra Paleolitico e Neolitico, sia pure in aree differenti. Tuttavia la denominazione introdotta dal Childe in archeologia, come prima approssimativa schematizzazione, conserva ancora una certa validità.
È comunque sicuro che la rivoluzione agricola del Neolitico favorì la rivoluzione urbana. Questa, infatti, fu la naturale conseguenza dell'incremento produttivo determinato dall'introduzione di nuove tecnologie, tra cui l'irrigazione. La rivoluzione urbana comportò nuovi modelli di possesso e ridistribuzione dei beni e causò la stratificazione della società in classi, concentrando le eccedenze nelle mani di una minoranza. Secondo il Childe, le città si svilupparono rapidamente nelle valli del Tigri e dell'Eufrate durante il III millennio a. C. Tuttavia successive scoperte in Palestina e in Turchia hanno documentato che il fenomeno era più diffuso nello spazio e nel tempo.
Bisogna comunque dire che lo stesso Childe dimostrò poi come la rivoluzione neolitica e quella urbana non siano state lineari, ma segnate da continui arresti e involuzioni. Tra gli ultimi lavori dello studioso vanno ricordati almeno Social Evolution (Evoluzione sociale, 1951) e Society and Knowledge (Società e conoscenza, 1956).
Per quanto riguarda il Pulo di Molfetta, l'opera da considerare è The Dawn of European Civilization, che, grazie alle revisioni e integrazioni dell'autore, giunse nel 1957 alla sesta edizione inglese. Tale stesura è stata tradotta da Mila Levi Pistoi per l'editore Einaudi come L'alba della civiltà europea, che nel 1972 è giunta alla seconda edizione italiana.
Come è noto, gli scavi guidati da Maximilian Mayer tra il 1900 e il 1901 e da Angelo Mosso e Michele Gervasio tra il 1908 e il 1909 hanno portato alla luce nell'area del Pulo reperti e resti databili tra la fine del VII millennio e la metà del III millennio a. C. Il Mayer esplorò principalmente il fondo della dolina, ma fece ricerche anche nel podere Spadavecchia rinvenendo avanzi di capanne, resti di tombe e frammenti di ceramica risalenti alla fase più antica dell'insediamento preistorico. Durante gli scavi del Mosso nell'ex fondo Azzollini, a sud-ovest del Pulo, oltre ai resti di 40 pavimenti di capanne, venne alla luce una struttura in blocchi lapidei con orientamento sud-est, che lo studioso ritenne una “strada pavimenta” neolitica. Il Childe, in possesso di un più copioso materiale comparativo, non mancò di segnalare in una nota lo svarione del senatore torinese: “il Mosso scambiò le rovine di un muro per una strada!”. Purtroppo la segnalazione non fu recepita a livello locale e ancora nel 1967, in un opuscolo su Il Pulo di Molfetta, un benemerito compilatore come Aldo Fontana, che ignorava la prima traduzione italiana dell'Alba della civiltà europea (1957) e le precedenti cinque edizioni inglesi, poteva ancora scrivere in buona fede: “Fu una scoperta sensazionale, in quanto tale strada costituiva uno dei più antichi esemplari dell'epoca neolitica che si conoscesse”.
Nonostante tale errore ed altre affermazioni datate, lo studio del Mosso (La necropoli neolitica di Molfetta, in “Monumenti antichi”, vol. XX, Milano, 1910) resta fondamentale per la conoscenza del popolamento preistorico dell'area circostante la dolina molfettese e della Puglia. A nord del muro di recinzione il Mosso rinvenne sette tombe; a sud dello stesso una necropoli del Neolitico Medio (seconda metà del IV millennio) con 49 tombe a pozzetto, in maggioranza ciste litiche funerarie.
L'insediamento neolitico, costruito sostanzialmente da agricoltori-allevatori, aveva in prevalenza capanne a base circolare o subcircolare. Il villaggio che si affacciava sulla voragine del Pulo, negli ex fondi Spadavecchia e Azzollini, ha restituito molta attrezzatura in pietra e tantissima ceramica impressa, decorata con incisioni a crudo per mezzo di unghiate o impronte di conchiglie o altre impressioni strumentali o digitali. Ciò ha consentito di definire una classe ceramica del Neolitico Antico come “ceramica neolitica primitiva nello stile di Molfetta”, come propose il Mosso, o “ceramica impressa tipo Molfetta”, come vollero altri. Inoltre ha permesso anche di denominare, secondo Franco Biancofiore, la più antica fase neolitica pugliese, estesa per tutto il V millennio, come “civiltà di Molfetta”. Tale civiltà impronta di sé tutta la Puglia, ma non ha rivelato la capillare diffusione della successiva “civiltà di Matera”, che pure ha potuto avvalersi della notevole esperienza rurale messa a frutto nelle comunità neolitiche della civiltà di Molfetta.
Secondo il Childe, mentre “la cultura di Stentinello fioriva ancora in Sicilia, la fase del Medio Neolitico in Puglia era già stata iniziata con l'avvento o lo sviluppo di una distinta cultura, che chiameremo qui cultura di Molfetta e che è caratterizzata dai suoi vasi dipinti […] La presenza di simili vasi dipinti comprova la diffusione della cultura di Molfetta nelle Isole Eolie, a Ischia e Capri, mentre in Sicilia è testimoniata soltanto da vasi dipinti isolati trovati negli stanziamenti della cultura di Stentinello. […] Si ritiene in genere che la cultura di Molfetta sia stata introdotta in Puglia dalla Penisola Balcanica; ma tranne per quanto concerne le spirali e i meandri di Lipari, non è possibile attualmente stabilire alcun parallelo decisivo su questa costa dell'Adriatico”.
Tra i reperti più belli della ceramica dipinta venuta alla luce presso il Pulo di Molfetta va segnalata una tazza monoansata a motivi di stile geometrico con spirali e meandri neri su fondo color camoscio col manico sormontato da una pròtome bovina, destinata dopo gli scavi del Mosso al Museo Nazionale di Ancona e poi perduta per le sciagure della seconda guerra mondiale. Essa è ascrivibile allo stile Serra d'Alto di Matera. Tale stile configura il secondo strato fondamentale del Neolitico apulo, che emerge poco oltre la metà del IV millennio avanti Cristo.
Concludendo non bisogna tacere che le stazioni preistoriche molfettesi hanno perduto l'importanza di un tempo nel più ampio quadro dell'archeologia italiana ed europea, ma le culture del Pulo di Molfetta conservano ancora una valenza paradigmatica per gli studi più recenti sul processo di neolitizzazione della Puglia e dell'Italia meridionale. Anche per questo le monografie del Mayer e del Mosso e le pagine del Childe, pur se vedono lievemente sminuita la propria rilevanza scientifica, nulla hanno perduto del loro valore pionieristico e del loro fascino.
Didascalia foto, a sinistra: tazza monoansata del Medio Neolitico dipinta in nero su color camoscio, proveniente dal Pulo di Molfetta (già nel Museo Nazionale di Ancona). A destra: il disegno della stessa tazza in una illustrazione riportata da Vere Gordon Childe.