Qualche tempo fa, mi sono accorto che tra i mie libri non letti vi era il volume curato da Zwi Bacharach “Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah”, edito da Laterza nel 2009. Dopo la lettura, emotivamente sconvolgente, ritenni fosse utile pubblicarne alcuni estratti, e credo che l’annuale prossima ricorrenza del giorno della Memoria sia l’occasione più indicata. Si tratta di circa 150 lettere scritte da uomini e donne ebrei prima di essere sterminati nei modi più orribili: provengono in larga parte dalla Polonia, dalla Lituania, dall’Ucraina e dall’Ungheria, e vanno dal 1941 al 1944. I destinatari sono parenti, amici, associazioni ebraiche residenti in quelli stessi Paesi, o in altri non invasi dai nazisti: in questi ultimi, le missive pervenivano fortunosamente grazie alla Croce Rossa, compatibilmente con il disastro materiale che devastava l’Europa. La scrittura avviene nei ghetti, nelle baracche dei campi, nei cari bestiame o sui camion, nei boschi ai bordi delle fosse in attesa delle raffiche. Il tempo intercorso dalla stesura alla morte, varia da qualche giorno a pochi minuti. Segue ora qualche breve commento assolutamente inadeguato ad una tragedia di proporzioni inaudite. Innanzi tutto gli affetti e i legami familiari ribaditi e trasmessi a coloro che si spera possano sopravvivere; alla iniziale incredulità subentra lo stupore per l’enormità e indicibilità della tragedia, e ancora la professione della propria innocenza, il desiderio di comunicare al mondo quanto accade e la disperata richiesta di essere soccorsi. La fedeltà alla religione di Padri si trasforma in alcuni nel rifiuto di un Dio che permette tutto ciò, e nell’approdo ad un muto ateismo. Altri, oltre l’abisso dell’annientamento, coltivano la speranza che i superstiti possano finalmente vivere in pace e libertà nella Terra Promessa del Nuovo Israele. Occorre ora accennare ad una questione dibattuta e vivamente controversa, sulla quale la storica ebrea Hannah Arendt sollevò per prima il velo del silenzio suscitando violente e ingiuste accuse di tradimento: il collaborazionismo ebraico. Sta di fatto che nei ghetti e nei campi operavano gli “Judenrat, una sorta di Consigli ebraici che sotto il controllo dei tedeschi avevano la tremenda responsabilità di “amministrare” migliaia di moribondi in condizioni di estrema difficoltà. Per esempio, potevano avere il compito di individuare gli inadatti al lavoro, e fornirne gli elenchi ai nazisti, che li assegnavano subito alle camere a gas; ma potevano anche richiedere, quasi sempre invano, un miglioramento delle condizioni generali. Vi era poi una milizia, o polizia ebraica, che sorvegliava e manteneva l’ordine, alle dirette dipendenze dei tedeschi. L’argomento è estremamente delicato, e io non ho gli elementi per esprimere un giudizio: in queste lettere comunque, sono presenti sia gli ‘‘Judenrat’’, che la polizia. Ma vi fu un altro collaborazionismo, documentato e inoppugnabile: polacchi, lituani, ucraini ed ungheresi, nei loro Paesi occupati dai tedeschi collaborarono attivamente ed estesamente all’olocausto: furono insomma, come è stato scritto, “i volenterosi aiutanti di Hitler”. Anche questa vergogna leggiamo nelle lettere, mentre bisogna pur ricordare i tanti cristiani che aiutarono i loro fratelli ebrei rischiando consapevolmente la loro stessa sorte. Questi sventurati conservavano davanti alla morte una mirabile dignità: secoli di persecuzioni avevano stampato, nel loro essere, una sorta di perenne vicinato spirituale con l’eventualità di essere assassinati. La consapevolezza di subire una inaudita ingiustizia spinge molti a gridare vendetta, e ad auspicare che essa si abbatta senza pietà sui loro persecutori e sui loro figli. Nei campi non esiste perdono. Le numerose rivolte armate, a cominciare da quella del ghetto di Varsavia, tradurranno in pratica questo estremo anelito. Nella primavera del 1945 gli eserciti tedeschi lasciavano nelle sterminate fosse dell’Est 6 milioni di morti innocenti. L’Europa era finalmente “Judenrein”, vale a dire semiticamente “ripulita”. Martin Heidegger e i suoi degni compari potevano ritenersi soddisfatti degli esiti trionfali della loro miserabile filosofia. (Le foto che corredano questo articolo furono scattate nel 1941 nel ghetto di Varsavia da Joe Heydecker, un soldato tedesco democratico che, benché fosse proibito, volle documentare l’infamia). 29 maggio 1944. Campo di concentramento di Williampola (Kovna). Lituania. ‘‘… Durante l’intero periodo del nostro esilio ci troviamo insieme nel ghetto io, tua madre, e tuo fratello Joseph. Yussel e suo fratello Barris sono stati catturati dai lituani immediatamente all’inizio della guerra, e di loro non vi è nessuna traccia fino ad oggi’’. Nekemia. 25 gennaio 1943. Polonia. “…Mi appello a tutti gli ebrei: non cercate gli affari, la carriera, ma la spada! Uccidete del popolo tedesco chi vi viene a portata di mano. Nessuna differenza: uomini, donne, bambini, giacché con noi si è fatto lo stesso. Il più grande scrittore del mondo non sarà in grado di descrivere la barbarie perpetrata nei confronti dei vostri fratelli. Devono dunque i vostri cuori bramare vendetta, vendetta, vendetta’’. Asher Ben Yiskhok. 17 luglio 1943. Bedzin. Polonia. ‘‘… Un capitolo eroico della nostra guerra si svolse a Varsavia. La difesa è stata organizzata da Zwia e Joseph insieme ai ragazzi; nel ghetto si svolsero battaglie terribili. Con nostro dispiacere si registrarono soltanto alcune centinaia di caduti dalla parte del nemico: 8oo. Il risultato finale fu lo sterminio di tutti gli ebrei e la distruzione totale del ghetto…”. Frumka Plotnitzka. 30 aprile 1942. Brody. Polonia. “… Al “caro” barbaro governo tedesco si sono uniti i nazionalisti ucraini, nipoti di Petljura e Taras Bulba, che nella nostra storia sono spesso menzionati per le spedizioni sanguinose contro gli ebrei. Hanno collaborato con i tedeschi, in cambio della promessa di un’Ucraina indipendente…”. Melek Goldenberg. 16 giugno 1942. Drujia. Polonia. “… Siamo tutti sdraiati in una fossa… la mia mano trema molto, non posso neanche finire di scrivere. Sono fiera di essere ebrea. Muoio per il mio popolo… tutto è finito. Fratelli di ogni Paese, vendicateci. Siamo condotti come pecore al macello”. Fanja Barbakov. 16 luglio 1942. Bonn. Germania. ‘‘… Ora vogliamo essere coraggiosi, care figliole per tutto il vostro amore grazie dal più profondo del cuore? non piangete per il nostro destino di ebrei. Non è destino, è vera VIOLENZA, e con quale GRANDEZZA viene sopportata… ora vengono… qui sopra ci sono i convogli che vanno nel nulla… in tre mesi non ci potrà essere nessun ebreo in Germania’’. (Anonimo). 6 giugno 1942. Polonia. ‘‘… Ci sono persone buone che ci nascondono, ma l’opinione pubblica polacca è molto ostile, ed è contenta della sorte del nostro popolo. La nostra vita è molto amara, ma speriamo di sopravvivere alla guerra per vendicarci dei tedeschi, e anche di moltissimi polacchi? ma ricordate, è lecito che la vendetta contro i nostri nemici sia molto grande, e condotta dal popolo di Israele, se esso vuole vivere e non vuole che ciò che è accaduto a noi accada una seconda volta’’. Binyamin Wald. Seconda metà del 1942. Vilnius. Lituania. ‘‘… Quando i banditi hitleriani hanno catturato tutti gli ebrei della cittadina, 926 anime, e con l’aiuto della polizia di qui hanno massacrato in modo bestiale più di 800 uomini, donne e bambini, ho descritto ogni giorno le mie esperienze del massacro, cioè dal 2 giugno 1942? che il mio quaderno di appunti incisi col sangue del mio cuore nei momenti peggiori della mia vita, e le vite dei disgraziati ebrei rifugiati, possano mostrare al mondo l’immenso lago di sangue…”. Yeskhok Aron. 9 agosto 1943. Konin. Polonia. “…Sono due giorni che la Gestapo ha preso i nostri documenti. Sappiamo che la sentenza di morte per le rimanenti 60 persone è già stata emessa? c’è un gentile (cristiano, ndr) che vuole darmi asilo, malgrado il fatto che così facendo subirà lo stesso destino, ma ho deciso di non separarmi dal mio caro padre? scrivo questa lettera negli ultimi momenti della nostra vita. Abbiamo una solo richiesta ed è la vendetta. Non importa quanto sarà grande la vendetta che vi prenderete: non sarà abbastanza’’. Feiuist. 15 novembre 1943. Polonia. ‘‘… Mercoledì 3 novembre, alle sei del mattino, nel campo di Trawniki è stato ordinato a tutti gli uomini di scavare delle fosse? circa due ore più tardi li hanno circondati e uccisi con le mitragliatrici. Dopo di ciò i tedeschi portarono nel campo 50 camion con donne e bambini, li spogliarono nudi e quindi li mitragliarono. Dopo questo massacro vennero portati nel campo tremila ebrei italiani che attendono lo stesso destino…”. Comitato Nazionale Ebraico. 14 marzo 1943. Jurbakas. Lituania. “…Immagina, Ghenia, che cosa ho passato quando ho visto con i miei occhi come hanno sparato a mia sorella Esther e l’hanno assassinata insieme a molti, molti altri. Per tutta la notte ho sentito i lamenti che venivano fuori dalle tombe fresche i gemiti dei bambini prima della morte, perché quasi tutti sono stati gettati nelle fosse ancora vivi… i malvagi capaci di compier queste azioni indegne devono essere impiccati, messi alla gogna, condannati pubblicamente… vado a morire con coraggio…”. Mika. 23 aprile 1943. Ghetto di Varsavia. “…Ci rendiamo conto di una cosa: quello che è accaduto ha superato i nostri sogni più audaci. I tedeschi sono fuggiti due volte dal ghetto? a partire da oggi passiamo alla tattica partigiana? il sogno della mia vita si è realizzato. L’autodifesa ebraica nel ghetto è diventata realtà. La resistenza armata ebraica e la vendetta si sono realizzate. Sono stato testimone della lotta straordinaria ed eroica dei combattenti ebrei’’. Mordechai Anielewicz. Comandante della Resistenza Ebraica. 19 ottobre 1943. Ghetto di Kovna. Lituania. ‘‘… La terra di Lituania è stata intrisa del nostro sangue da quelli stessi lituani che hanno vissuto con noi per centinaia di anni? settemila nostri fratelli e sorelle sono stati uccisi qui dai lituani nel modo più crudele nei villaggi della provincia loro e nessun altro hanno trucidato per ordini dei tedeschi intere comunità consacrate? non mostrate pietà per tutta la vita? dovrebbero essere maledetti e ostracizzati e così i loro figli da voi e dalle generazioni future…”. Alex Elchanan. 11 maggio 1943. Londra. “… Dalle ultime notizie provenienti dal Paese, emerge senza ombra di dubbio che i tedeschi stanno uccidendo gli ultimi ebrei in Polonia con implacabile crudeltà. Dietro ai muri dei ghetti si sta ora svolgendo l’ultimo atto di una tragedia senza precedenti nella storia? non posso tacere e non posso vivere, mentre in Polonia periscono gli ultimi ebrei di cui io sono il rappresentante. I miei compagni sono morti nel ghetto di Varsavia, con le armi in mano, nell’ultimo slancio eroico? non mi è stato concesso di morire come loro, insieme a loro. Ma appartengo a loro, alle loro fosse comuni. Con la mia morte voglio esprimere la più profonda protesta contro l’inazione con cui il mondo osserva e permette l’eliminazione del popolo ebraico’’. Szmul Szygelbojm (lettera inviata dall’esilio il giorno prima del suicidio). 7 aprile 1943. Termopol. Ucraina. “… Furono nostri fratelli i poliziotti, a portare la gente a morire ? di nuovo la nostra polizia ebraica rastrellò le vittime negli appartamenti e nei nascondigli’’. Mushiya. Senza data né luogo. ‘‘Uomini pietosi salvate il bambino Dio vi ripagherà non consegnate il bambino agli assassini? abbiate pietà di questo disgraziato bambino! Questo chiede una madre che non ha potuto fare altro’’. (Biglietto lasciato da una madre prima dell’esecuzione accanto al figlio, abbandonato nella speranza che si salvasse). © Riproduzione riservata