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Università Popolare Molfettese, conferenza del prof. Cormio: i valori della Costituzione
05 febbraio 2012

MOLFETTA - Modificare la Costituzione Italiana significa intraprendere un iter giuridico lungo e complesso. Ogni giorno, guardando i telegiornali o leggendo le dichiarazioni di questo o di quel politicante, ci si rende conto di come i tentativi di revisionarla, provenienti da ogni schieramento politico, si fanno sempre più insistenti e risoluti.
Il prof. Aldo Cormio (nella foto con la presidente Ottavia Sgherza) nella conferenza all’Università Popolare Molfettese, ha esaminato le condizioni storiche che hanno determinato la nascita della Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Per il Paese era un momento di rottura epocale, segnata dal fallimento del fascismo e della tradizione liberale italiana che, all’inizio del secolo, non era stata in grado di adeguarsi alla spinta democratica, di fatto cedendo il passo al nascente movimento fascista.
L’Assemblea costituente rispose alla necessità di trovare vie nuove creando dal nulla un ordine legislativo che, per alcuni storici, segna il punto più alto del Costituzionalismo europeo. «La Costituzione Italiana - ha spiegato il prof. Cormio - è nata dal sangue versato e, dopo quattro secoli, offre una risposta ai guasti aperti dalla modernità».
Tra le forze politiche protagoniste della Costituente, la Democrazia Cristiana, con la triade Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giuseppe Dossetti. Quest’ultimo, in particolare, sostenne come la crisi del mondo moderno nascesse da una concezione errata dell’uomo, della società e dello Stato. Infatti, a partire dal Settecento lo Stato non fu più considerato come un “organismo vivente” dotato di proprie leggi, ma un “artificio”, un’entità anteriore all’uomo e alla società. Alla centralità degli individui si sostituì quella dell’astratto meccanismo statale, ampliando il divario tra la politica e l’economia da una parte e l’etica dall’altra: con il mercantilismo prima e il capitalismo poi, le forze al potere pretesero dai governi una politica di espansione verso l’esterno e di mantenimento dello status quo all’interno.
«Per evitare lo strapotere dello Stato - ha aggiunto il prof. Cormio - bisogna rilanciare l’autonomia dei “corpi intermedi”, di quelle forme associative, come la famiglia, che difendono il soggetto dall’onnipotenza dello Stato moderno e insistere sulla necessità d’impegno da parte della Chiesa che vive un momento di crisi e sta perdendo la sua carica interventista». Centralità della persona, solidarismo economico e ripudio della guerra sembrano essere i principi che, richiamando le posizioni dei dossettiani sono alla base di uno Stato democratico e della Costituzione italiana.
Il vicesegretario democristiano, in un’intervista rilasciata nel 1994, esprime serie preoccupazioni per i tentativi di modificare sotto diversi aspetti la Carta costituzionale che, secondo Dossetti, «non gode di buona salute». Importante è ora comprendere l’animo che ha ispirato ciascun articolo della Costituzione e riflettere bene prima di pensare di modificarla. Farlo soltanto laddove strettamente necessario per adeguarla ai tempi e renderla sempre attuale.     
 
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Autore: Marianna Gadaleta
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La democrazia è da sempre sottoposta a critiche corrosive, di volta in volta, da destra e da sinistra. Tali critiche non sono affatto pretestuose. Esse sollevano problemi che la democrazia non può certamente permettersi di sottovalutare. La critica antidemocratica di destra attacca l'idea di eguaglianza che costituisce un elemento portante della democrazia. La considerazione degli uomini come eguali, mentre eguali non sono, comporterebbe il livellamento, lo spegnimento delle energie migliori, la massificazione, il trionfo della mediocrità, la prevalenza del numero sulla qualità. Inoltre, la regola democratica secondo cui le decisioni collettive si assumono sulla base dell'accordo del maggior numero di individui spingerebbe verso il compromesso, cioè l'annacquamento delle idee forti e degli ideali politici. La Politica (con la P maiuscola) verrebbe così soppiantata dal commercio degli interessi utilitaristici. La democrazia, conclusivamente, è vista come il regime del gregge che pensa solo ai propri interessi materiali, indifferente alle tensioni ideali nella vita collettiva: appare così il regime che i popoli si danno nei periodi della loro decadenza. Coloro che ragionano così (i reazionari) auspicano un sistema sociale e politico organizzato gerarchicamente, cioè sulla base del principio di disuguaglianza. Al vertice vengono collocati, nella posizione di dominio, i migliori (i più forti, i più sapienti, i più intraprendenti, i più ricchi, ecc.) e alla base, in posizione gregaria, i peggiori (i più deboli, gli ignoranti, i meno intraprendenti, i più poveri, ecc.). La critica antidemocratica di sinistra è, in certo modo, opposta. Mentre la destra lamenta l'eccesso di eguaglianza, la sinistra lamenta la sua insufficienza. In una società in cui esiste diseguaglianza di condizioni economiche e sociali, la democrazia è solo apparente. Il sistema è destinato infatti a essere dominato dai più potenti e la democrazia si riduce, per i deboli, in un vuoto gioco di procedure, in cui saranno irrimediabilmente sconfitti. Coloro che ragionano così (i rivoluzionari) propongono un programma di trasformazione sociale, per eliminare le differenze tra le classi, i gruppi e gli individui. Ma, rifiutando le vie democratiche (come le riforme legislative) perché ingannevoli, propugnano l'azione diretta delle masse oppresse. Entrambe queste critiche della democrazia contengono, un nocciolo di verità. E' vero – come segnala la critica di destra – il rischio di decadimento della democrazia in un regime massificato; egualmente è vero – come segnala la critica di sinistra – il rischio dello svuotamento della democrazia a favore di minoranze privilegiate. Ma occorre riconoscere che non si tratta di due caratteri necessari della democrazia ma, piuttosto dei due modi in cui essa può corrompersi. (La democrazia è un cattivo regime, ma che non se ne conoscono di migliori - Churchill) - (George Orwell scrittore inglese di ispirazione socialista descrisse nel romanzo "La fattoria degli animali" le degenerazioni cui può andare incontro il sistema democratico. In un'altra opera quasi fantascientifica, "1984", egli pose l'accento sui pericoli per la democrazia emergenti da un uso sistematico del progresso tecnologico per fini di potere). - (Questa Repubblica, Gustavo Zagrebelsky)
E' il 22 dicembre 1947. Dopo diciotto mesi di dibattiti, di lavoro dottrinario, di scontri, ma attutiti da un generale senso di responsabilità e dalla volontà di portare a compimento le fondamenta dell'Italia democratica, che hanno mitigato le opposte tendenze ideologiche, gli interessi di partito, le diverse culture, è stata approvata a larghissima maggioranza (453 voti contro 62) la nuova Costituzione. Cinque giorni più tardi, il capo dello Stato, Enrico De Nicola, la ratifica con la sua firma. Il 1° gennaio del 1948, la Carta Costituzionale entra in vigore. Se è giusto, oggi aprire il dibattito sulle ambiguità della macchina costituzionale e sugli inceppamenti che ne derivano, sarebbe antistorico valutare l'operato dell'Assemblea Costituente senza tenere conto del clima politico, degli eventi che attraversarono il suo percorso, delle circostanze storiche e dei rapporti di forza, degli equilibri necessari a evitare la paralisi del consesso che aveva il compito di redigere e approvare il testo della Costituzione e in cui nessuna forza politica poteva, da sola imporre numericamente le proprie tesi. La composizione dell'Assemblea era tale da obbligare alle alleanze, alle intese, agli accordi. C'era una forza mattatrice, la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, ma la sua maggioranza era relativa. Le prime elezioni politiche dell'Italia democratica, parallele al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e per la prima volta aperte al voto delle donne, al suffragio universale, avevano dato questi risultati: 207 seggi su 566,m pari al 35,2 per cento dei voti, alla Democrazia Cristiana; il 20,7 per cento dei suffragi e 115 seggi al Partito Socialista di Unità Proletaria, guidato da Nenni, Saragat, Lelio Basso, Pertini, Morandi; 104 seggi e il 19 per cento dei voti al Partito Comunista Italiano. Queste erano le forze egemoni. La vittoria (una vittoria non scontata: il Vaticano e papa Pio XII paventavano il prevalere dei social comunisti) era della Democrazia cristiana. Ma, in pratica, i due schieramenti, le due opposte culture si equivalevano e avrebbero potuto paralizzarsi; da una parte la cattolica e, allora, vaticanissima DC; dall'altra i partiti marxisti che di lì a poco, il 27 ottobre 1946, avrebbero sottoscritto un patto di unità d'azione, già funzionante nei fatti e preludio del fronte Popolare nello scontro elettorale del 1948. I partiti di massa avevano fatto man bassa di voti e di seggi. Quanto alle forze laiche di centro-sinistra e di destra democratica, si trattava di scampoli. Il Partito d'Azione aveva racimolato l'1,5 per cento dei voti: Raggruppati nell'Unione Democratica Nazionale che, erede di tutti i partiti di governo sbaragliati dalla mussoliniana “Marcia su Roma”, sbandierava le “grandi firme della politica prefascista da Croce a Bonomi, da Orlando a Nitti, i liberali e i demo laburisti, il Partito Repubblicano e l'Uomo Qualunque, il Blocco Nazionale della Libertà di proclamata ispirazione monarchica. Questo era lo spaccato numerico della Costituente: una composizione di forze, di ideologie, di tradizioni e di culture che solo attraverso il compromesso avrebbe potuto svolgere il proprio compito di formulare e approvare la nuova Carta Costituzionale. Per decreto legge, la Costituente non poteva esercitare funzioni legislative né di controllo sull'esecutivo. I poteri legislativi erano riservati al governo fino all'elezione del primo Parlamento ordinario: che avvenne nell'aprile del 1948. La Costituente sarebbe stata chiamata solo ad approvare il trattato di pace e le leggi elettorali, e a dibattere argomenti (furono soprattutto i provvedimenti di natura economica) sui quali il governo “ritenga opportuno a deliberare”. Il decreto fortemente limitativo, proposto - afferma lo storico e testimone Leo Valiani – da una commissione di giuristi americani, ma in realtà “voluto dagli ambienti moderati italiani” nella speranza che il tempo addolcisse i fervori riformisti, era stato avversato dalle sinistre, ma vanamente. Vana fu anche la proposta del giurista Pietro Calamandrei il quale suggerì di scavalcare quel decreto, per legiferare sulle grandi riforme o, almeno, sull'attuazione di quei diritti di libertà che, via via, sarebbero stati sanciti dalla Costituente: vale a dire, riforma dei codici e delle leggi sulla pubblica sicurezza e sulla stampa. Quella proposta non passò perché sia la DC sia le sinistre speravano di prevalere nelle successive elezioni.......... La solita storia del gattopardismo italiano e, ancora, ne paghiamo i risultati, sotto gli occhi di tutti.
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