La vittoria del candidato sindaco del Popolo della Libertà, Antonio Azzollini, ha scompaginato tutte le carte politiche a Molfetta. Sono scomparsi alcuni partiti, si sono costituite formazioni trasversali e hanno perso influenza e potere alcuni personaggi che muovevano pacchetti di voti. Alcuni di loro, Pino Amato, Minuto e Visaggio, pur avendo ottenuto un gran numero di consensi, sono relegati all'opposizione. La città ha scelto Azzollini, smentendo anche le previsioni eccessivamente ottimistiche di alcune forze politiche della coalizione Salvemini, sicure di poter battere il senatore azzurro addirittura al primo turno. Molfetta ha scelto un Capo, non un Leader: un uomo solo al comando e ha preferito chi non deve rispondere a nessuno, a chi deve mediare tra cento anime. C'è una sorta di miopia politica, soprattutto sul fronte del centro-sinistra e in quello centrista che si è contrapposta al neo sindaco. La società è cambiata, è mutato il sistema dei partiti, non più ideologizzati e portatori di interessi definiti: oggi siamo di fronte a «partiti pigliatutto » che cercano il consenso degli elettori provenienti da classi sociali diverse e perfino portatori di interessi contrapposti a quelli della propria categoria. Un esempio sintomatico per tutti: il voto degli operai alla Lega Nord. A Molfetta non è presente il fenomeno leghista, anche se esso è in parte rappresentato dal Movimento per le autonomie di Raffaele Lombardo (formazione senza radicamento territoriale e priva di senso da noi, ma nata qualche settimana prima del voto solo per dare una casa al gruppo «transfuga» dell'Udeur, rappresentato da Mariano Caputo), ma è diffuso il più grave fenomeno, mutuato da quello nazionale, di un populismo strisciante, che ha come simbolo Antonio Azzollini. «Un uomo, una città», recitava uno slogan elettorale di quello che può essere considerato il padrino politico di Azzollini, Beniamino Finocchiaro, al quale il «Tonino nazionale» e la sua famiglia devono molto e dal quale Azzollini ha ereditato una logica di governo, caratterizzata dall'accentramento di potere. Poi ci ha aggiunto del suo, quel populismo berlusconiano che potrà fare storcere il muso a qualche internauta benpensante della sinistra radicale salottiera, che si arrovella il cervello nei blog e nelle mailing list, ma che è uno dei motivi della vittoria elettorale della destra. Un populismo che non piace neanche a noi, ma che riflette l'immagine di una società abituata a non pensare dall'invadenza di quella tv che risolve tutti i problemi e costruisce idoli che diventano punto di riferimento delle masse. Non più valori, non più modelli di comportamento etico, ma solo modelli televisivi popolari che parlano allo stomaco della gente, che vi si immedesimano, che riescono a parlare il loro linguaggio, a interpretare più i sogni che i reali bisogni, in una realtà virtuale allargata a 360°. La spettacolarizzazione è la regola, l'onnipotenza è la costante (tutti possono fare tutto), mentre il politico che è visto come uno di loro (perfino una velina può diventare ministro), in grado di darti ciò che desideri in cambio di una delega in bianco per decidere e perfino pensare per loro. Nessuno si indigna più. Per nulla. Altro che Grande Fratello! Ecco perché la coalizione di Salvemini è stata sconfitta: non ha saputo parlare alla gente, né offrire una valida alternativa, che fosse soprattutto credibile, ai cittadini. Nel panorama che abbiamo descritto è difficile trovare argomenti convincenti, soprattutto per un partito il PD, costituito appena da qualche mese, che non ha avuto la possibilità di radicarsi sul territorio. Ma anche i loro «genitori» la Margherita e i Ds avevano perso il contatto con la gente, con i suoi problemi, che non sono il porto, il parco, la manifestazione culturale di pregio, ma quelli con cui deve fare i conti ogni giorno con un reddito sempre più eroso dall'inflazione e dall'euro. Così, promettere posti di lavoro o assegnare un incarico temporaneo e poco remunerativo come quello di rappresentate di lista, diventa una fonte di consenso. Il centro-sinistra ha pagato anche l'errore di aver messo insieme una coalizione non sbagliata dal punto di vista strategico - perché senza il centro non si vince e l'area di sinistra a Molfetta non raggiunge il 30% - ma viziata dalla presenza di qualche personaggio che, al di là di situazioni pendenti con la giustizia, risultava sgradito a una parte dell'elettorato. Il fatto, poi, che alcuni di questi personaggi «sgraditi» riescano ad ottenere una valanga di voti, la dice lunga sullo scenario sociale in cui si è costretti ad operare. Questo aspetto, non diminuisce la responsabilità di un centro-sinistra che non è riuscito a produrre un'efficace opposizione ad Azzollini nel precedente consiglio comunale, ma soprattutto nella città, al punto che è sembrato che fosse solo il nostro giornale a svolgere quel ruolo di critica alla maggioranza di governo. Non si può restare chiusi nei partiti o nelle mailing list a perdersi in dibattiti eruditi e in dietrologie senza senso, in una sorta di cenacolo culturale fine a se stessi fra quattro gatti. Un «come eravamo» nostalgico, che non produce nulla di concreto, se non una dotta analisi di cui compiacersi, ma della quale ai cittadini importa poco. La gente, disgustata da una certa società che estremizza un consumismo impossibile nell'attuale situazione economica e finanziaria o riesce a trovare un modello alternativo credibile, oppure si adegua, nella speranza di godere un giorno di una fetta di quel benessere pubblicizzato dalla tv, che attraverso il prodotto, in un messaggio sublimale, impone anche il produttore. Un candidato sindaco non si inventa in una settimana, anche il migliore possibile (e in questo caso Mino Salvemini rispondeva a questo criterio) ha bisogno di tempo per conquistare la fiducia della gente. Ecco perché occorre cominciare subito a «costruire» il nuovo candidato, a dargli visibilità, a farlo parlare in ogni occasione utile, a contrapporlo al sindaco in carica per far sì che i cittadini vi si riconoscano, soprattutto quando difende quei loro diritti negati dal Palazzo. È l'unica strada possibile - come insegna la vicenda di Obama nelle primarie Usa - per chi non ha alle spalle una forza economica tale da poter supportare una campagna elettorale. Guglielmo Minervini nel '94 vinse con mezzi poveri, senza finanziamenti che non fossero volenterose collette ai comizi, ma riuscì a proporre un progetto credibile grazie ad un'efficace campagna di comunicazione (“restituire la città ai cittadini” e il “nodo al fazzoletto”), ma anche avvicinando quegli strati della popolazione che non si sentivano rappresentati o che erano delusi dai partiti tradizionali. Oggi la realtà è cambiata, non sono più i partiti a governare, sono i singoli, il cui carisma, diventa la carta vincente. E la trasmigrazione di voti, in assenza di riferimenti ideologici, è ormai la regola. E non funzionano nemmeno le battaglie-contro. L'elettorato ha bocciato perfino le soluzioni basate sull'esperienza, considerando «vecchi» personaggi che hanno avuto ruoli di primo piano nella politica, come Enzo de Cosmo e Lillino Di Gioia, che pure hanno lavorato per il partito, più che per sé, portando voti a una coalizione, che ha avuto il torto di non essere omogenea o di non apparire tale (e non si è riusciti a presentarla come tale). Ha trionfato una sorta di giovanilismo diffuso, l'unico che, agli occhi dell'elettore, poteva rappresentare un segnale di cambiamento. Quando poi, in realtà, non si trattava di cambiamento ma di conservazione sotto altre spoglie. E non paga nemmeno la cosiddetta «intransigenza morale » (come tra l'altro conferma la crisi della giustizia) perché agli occhi degli elettori non fa testo un problema giudiziario, anzi paradossalmente diviene titolo di merito. Ora occorre ricominciare dalla semplificazione dei problemi e del linguaggio, dalla capacità di offrire certezze e rassicurazioni a una cittadinanza smarrita e stanca. Con grande umiltà e voglia di capire. Altrimenti è meglio rassegnarsi a svolgere una funzione marginale, fine solo a se stessa.
Autore: Felice de Sanctis