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Traditore del popolo La tragica storia di Salvatore Sallustio
15 gennaio 2015

Salvatore Sallustio, di Sabino e Rosa Mancini, nacque a Molfetta il 15 aprile 1906. Nel 1922 partì per gli Stati Uniti, imbarcandosi come mozzo a Trieste il 28 aprile 1922 sul piroscafo “Wilson”. Giunto a New York, decise di disertare, e si stabilì a Hoboken, lavorando per otto anni in diverse fabbriche, compresa la Ford. Dopo l’avvento del fascismo, aderì ai numerosi circoli antifascisti che sorsero nella metropoli, compreso quello di Hoboken, che raggruppava tutti gli emigrati molfettesi ostili al regime. In quegli anni partecipò a numerose manifestazioni operaie e antimilitariste, segnalandosi come “sovversivo” presso le autorità di polizia americane. Come altri suoi compagni, era già schedato e controllato attraverso il consolato italiano e le sue spie, dalla polizia fascista italiana. Nel luglio del 1930, probabilmente già iscritto al partito comunista americano, fu arrestato mentre distribuiva manifestini “invitanti all’ odio e alla guerra di classe”, e proposto per la espulsione dalle autorità americane di immigrazione. Nell’ottobre dello stesso anno, grazie all’International Labour Defense, evitò l’invio forzato in Italia, e gli fu concesso di optare per l’immediato trasferimento in Unione Sovietica. Stabilitosi a Mosca, ottenne di lavorare presso la grande fabbrica di cuscinetti a sfera Kaganovic. Nel 1935, intervistato da un giornale moscovita, mostrò grande entusiasmo per la realtà sovietica. In quella occasione, alla domanda se avesse mai sottoscritto obbligazioni in altri Paesi, rispose: «Oh, i prestiti capitalistici! Sono delle obbligazioni di Borsa che hanno l’odore dell’iprite, del sangue, e della guerra fratricida! In quel maledetto massacro imperialista ho perso due fratelli. No, non ho dato mai una lira ai re dei cannoni, ma è già il terzo anno che do un mio stipendio mensile al socialismo». Intorno alla metà del 1935 una lettera inviata da tal Luigi Gualario, informatore fascista di Hoboken, al Commissariato di P.S. di Molfetta, invitava le autorità molfettesi a non maltrattare la madre del Sallustio, da lui ben conosciuto. Tra le righe del testo, abbastanza contraddittorio e vergato in un italiano approssimativo, si lasciava capire che tra i vecchi compagni di Hoboken si mormorava che Salvatore era alquanto pentito di essersi trasferito in Unione Sovietica. Tutta da dimostrare l’attendibilità di questa informazione. Il 10 marzo 1938 fu arrestato a Mosca con l’accusa di spionaggio a favore dell’Italia. Subito processato, fu condannato a morte il 19 maggio. La sentenza fu eseguita dieci giorni dopo nel poligono di tiro di Bukovo, tristemente famoso per le esecuzioni della polizia segreta sovietica. Abbiamo la possibilità di leggere il breve verbale del processo-farsa cui fu sottoposto Salvatore il 19 marzo 1938. Sostanzialmente confessa di essere stato arruolato dai servizi segreti italiani per svolgere attività spionistica ai danni della Russia. Un tale Marino, tecnico italiano che lavorava come straniero nella stessa fabbrica, nell’ambito di un accordo di collaborazione industriale fra i due Paesi, in realtà agente dei servizi fascisti, lo aveva convinto a tradire, magnificandogli le condizioni degli operai italiani, paventando la prossimità di una guerra sicuramente per- duta dall’Unione Sovietica, e ricattandolo sulla sorte della sua famiglia in Italia. Salvatore Sallustio fu riabilitato nel 1956, ma alla moglie che chiedeva di poter conoscere il luogo della sua sepoltura, fu risposto che era deceduto il 23 marzo 1942 di polmonite, in un campo di lavoro correttivo. La tragica fine di questo comunista molfettese potrebbe essere sbrigativamente archiviata come un esempio, tra altre centinaia di migliaia, del fallimento e degli orrori del comunismo e della Rivoluzione bolscevica. La sterminata bibliografia sull’argomento, ampliatasi da vent’anni grazie anche alla parziale apertura degli archivi russi, concessa dalla pseudo democrazia putiniana, permette, a chi ne abbia l’intenzione, di farsi un’idea di quell’evento, e di confermare o magari rivedere alcuni sui giudizi preconfezionati dalla imponente macchina propagandistica della Guerra Fredda. Io credo, tuttavia, che non si renderebbe un buon servizio alla memoria di Salvatore, connotando la sua vicenda come uno degli innumerevoli misfatti del comunismo, per il semplice motivo che probabilmente lui non sarebbe d’accordo. Se proviamo ad immaginare di essere davanti alla sua tomba, e di avere due diverse aggiunte da sottoscrivere al suo nome, una: “vittima del comunismo”, e l’altra: “comunista”, è molto probabile che, se potesse, sceglierebbe senz’altro la seconda. Se dalla singola vicenda di un oscuro operaio rifugiatosi presso un regime che lo assassina, allarghiamo lo sguardo al Movimento nel suo complesso e agli innumerevoli scomparsi nel gorgo delle purghe, constatiamo in numerosissime testimonianze che la condanna del comunismo come progetto di trasformazione radicale della società e del movimento storico, è piuttosto rara. Quella che viene condannata non è l’idea e nemmeno la possibilità di realizzarla compiutamente, ma soltanto la degenerazione burocratica di una classe dirigente, all’interno di determinate e non assolute situazioni storiche. Questo atteggiamento lo si può constatare anche nei grandi processi moscoviti del ’37 e ’38, che videro sterminata tutta la vecchia guardia bolscevica, a cominciare da quello contro Nikolaj Bucharin. In quelle circostanze, infatti, più che la critica al Partito, considerato come l’avanguardia infallibile del proletariato, prevalsero le auto accuse e le ammissioni di errori personali che potevano aver danneggiato la Causa e che meritavano le condanne. Il Comunismo, come sola possibilità di redenzione laica dell’umanità, e di conferimento di un senso alla storia, non veniva mai posto in discussione. Era evidente che accusati ed accusatori agivano in un contesto che prescindeva dalla legalità borghese. Non si dibatteva sulla violazione di un articolo di un qualsiasi Codice Penale, ma sulla salvaguardia della Rivoluzione. Bucharin, innocente per qualsiasi altro tribunale, risultava e si dichiarava oggettivamente colpevole di fronte alla Storia ed alla missione di Librazione mondiale che in quel momento l’Unione Sovietica incarnava. Al di fuori dell’aula del Processo, non vi era nessun’altra legge, nessun’altra moralità cui appellarsi per rivendicare la propria innocenza. Si ammetteva la propria “colpa” interna, per conservare davanti al patibolo la dignità della propria appartenenza ideologica e del proprio passato. Nel 1965 usciva in Italia il saggio del filosofo francese Maurice Merleau- Ponty “Umanismo e Terrore”, una delle “bibbie” dei giovani di quegli anni e fonte allora di feroci dibattiti. Nel volume si affrontavano vari argomenti: i processi di Mosca, le posizioni di Trotskj, la critica a “Buio a Mezzogiorno”, capolavoro dell’ ex comunista Arthur Koestler, ed infine la liceità o meno della violenza rivoluzionaria. Le argomentazioni di Merleau- Ponty, accusato all’epoca di essere un “cattivo maestro”, sono tipicamente francesi e certamente confutabili, purché con altrettanta dialettica. Ne offro, in conclusione, un piccolo saggio: «Rispettare chi non rispetta gli altri è in definitiva disprezzarli, astenersi dalla violenza verso i violenti è farsi loro complice. Noi non abbiamo la scelta fra la purezza e la violenza, ma fra diversi tipi di violenza. La violenza è il nostro destino in quanto siamo incarnati. Non c’è anzi persuasione senza seduzione, cioè, in ultima analisi, senza disprezzo. La violenza è la situazione di partenza comune a tutti i regimi. La vita, la discussione e la scelta politica non hanno luogo se non su questo sfondo. Ciò che conta e di cui si deve discutere non è già la violenza, ma il suo senso o il suo avvenire. Se si condanna ogni violenza, ci si pone fuori dall’ambito in cui c’è giustizia e ingiustizia, si maledice il mondo e l’umanità: maledizione ipocrita, giacché, chi la pronuncia, dal momento che ha già vissuto, ha già accettato la regola del gioco. Fra gli uomini considerati come coscienze pure non potrebbe infatti esserci nessun motivo per scegliere. Ma fra gli uomini considerati come titolari di situazioni che compongono insieme un’ unica “situazione comune”, è inevitabile che si scelga, è lecito sacrificare coloro che secondo la logica della loro situazione, sono una minaccia e preferire coloro che sono una promessa d’ umanità».

Autore: Ignazio Pansini
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