Sono passati 10 anni dalla scomparsa di Antonio Nuovo
Dieci anni fa, in estate, si spegneva il pittore Antonio Nuovo, un punto di riferimento sotto il profilo artistico per la nostra città e non solo. In questo decennale, l’affettuoso saluto della redazione va alla moglie Maria Colamartino, discreta e delicata figura, nel cuore di tanti molfettesi. L’attività artistica di Nuovo conobbe un primo momento di presentazione al pubblico nella mostra del Circolo Unione dell’anno 1944, mentre Molfetta, occupata dagli alleati, si accingeva a un graduale e sofferto ritorno alla normalità. Nell’occasione Nuovo rievocava un tema caro all’arte italiana, da Masolino a Masaccio, ma già allora il pittore tradiva la sua propensione all’ironia, il desiderio di ‘sconciare’ con diletto geniale ciò che un retaggio secolare aveva reso logoro e abusato. Ed ecco che il cilindro sul capo di Adamo e il fiocco di Eva proiettavano i due antenati in uno scenario diverso, quasi clownesco. La clownerie sarebbe stata cara a Nuovo, con un gusto che l’avrebbe avvicinato fortemente dal punto di vista tematico e segnico all’artista Franco Gentilini, con il quale condivide alcune tematiche comuni. Alcuni esempi potrebbero essere l’insistenza sul motivo dei gatti (spesso nel bel mezzo di una composizione di Nuovo irrompe un gatto dal gusto chagalliano, il più delle volte nero), delle carte e dei tarocchi, cui il pittore molfettese avrebbe dedicato i suoi “arcani maggiori”, esposti nell’ottobre 1983, presso la galleria “Il Cavalletto”. Anche Gentilini, negli anni Settanta, avrebbe ripreso il tema degli antichi progenitori, con modalità diverse, mantenendo la nudità della sola Eva in posizione frontale. La stagione artistica di Antonio Nuovo (per un certo periodo vicino al gruppo della “Nuova Puglia”) è stata straordinaria; nell’ambito dei momenti di ricognizione della stessa, menzioneremo, tra gli altri, il catalogo L’espressione del sacro, realizzato nel marzo 2002 dalla tipografia Mezzina con presentazione di Giovanni de Gennaro, Lorenzo Palumbo (che curò il curriculum del pittore, con un lavoro notevole), Natale Addamiano, Michele Paloscia e Mauro Altomare, e il lavoro di Gaetano Mongelli (in più occasioni tornato a riflettere sul Nostro), Un protagonista silenzioso della pittura pugliese del Novecento: Antonio Nuovo (Molfetta 1926-2008), in «Enkomion. Storia, letteratura e arte», a. I/2 (2011), pp. 19-22. Molteplici le tematiche affrontate, sempre caratterizzate da motivi ricorrenti: tra questi la Luna, più volte interlocutrice del poeta, i già citati gatti, i volti espressionisticamente deformati a maschere. Forse perché l’artista aveva colto che i nostri visi celano una maschera di inautenticità e quella maschera è andato a erodere e scolorire. La sua è una pittura possente, il tratto è a volte tempestoso come in una bella marina in cui campagna e cielo rosso/arancio si confondono e quasi non distingui mare e terra, perché la Natura è un tutto in cui tutto confluisce e riposa (o s’agita). A tratti intuisci il profondo senso della giustizia alimentato da quell’animo schivo, apparentemente burbero, ma in realtà di una cortesia d’altri tempi; lo scorgi chiaramente nell’Angelo dell’Apocalisse, il quale sembra una nuvola che aleggia leggera sulle case e invece discende a porre fine a tutte le seduzioni del Male. Lo cogli nell’urlo di dolore delle Donne al Calvario, rappresentate di spalle con le braccia tese alla croce ed è tutto un trionfo di rosso e nero nel pianto della morte del Sole. Emerge la fatica del vivere, che a tratti è stata letta come figlia di suggestioni neorealistiche (si veda il pescivendolo che piacque a Guttuso) o di intenti di denuncia (l’allestimento genovese con Franco Valente, presso la Galleria dell’Acquasola), ma probabilmente nasceva dall’urgenza di esprimere e rappresentare una percezione del Mondo e del reale mai scontata, con la visionaria forza di un sognatore. Un sognatore che, come nell’olio su tela presso il Consiglio regionale, poteva affollare ensorianamente la tela di gente dai volti-maschere, in poderoso horror vacui, finendo col rivelare il carattere di danza macabra e di pietosa commedia, epifanico significato delle nostre esistenze futili. Poi d’improvviso ti soffermi su una signora che guarda in alto (chissà dove) o su un paio di tacchi, deputato a introdurre una nota di frivola luminosità, o magari ancora su un gatto intorno al quale si crea il vuoto, quasi fosse re della scena. Capisci allora che quell’affollarsi di volti, di corpi, di odori, di ineffabili insensatezze ha una sua bellezza. E, mi piace citare un verso dei Limoni di Montale, “il gelo del cuore si sfa”. © Riproduzione riservata
Autore: Gianni Antonio Palumbo