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Società liquida e nuova paideia
15 luglio 2016

Quello che stiamo vivendo negli ultimi anni è il passaggio di un’epoca, la fine di un mondo che conosciamo e al quale ci eravamo abituati. Un mondo che fa parte della nostra cultura, della nostra identità, del nostro sentire comune. Ma quel sentire comune non c’è più, prevale un nichilismo diffuso, un individualismo sfrenato dove il «tutti contro tutti» diventa la regola e soprattutto l’altro appare il nemico da cui guardarsi, in un egoismo di massa, in un soggettivismo anarcoide che ha minato le basi della modernità, l’ha resa debole senza modelli o riferimenti, lasciando spazio a quella che il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman definisce società liquida. Di qui la crisi dello Stato, delle ideologie, dei partiti di quella comunità di valori che, come diceva Umberto Eco, permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni. Nella società liquida si perdono quei valori sostituiti dalla logica dell’apparire a tutti i costi. Lo stesso Eco ci ricorda che la crisi dei partiti ha provocato un vuoto, trasformandoli in «taxi sui quali salgono un capopopolo o un capobastone che controllano i voti, scegliendoli con disinvoltura a seconda delle opportunità che consentono e questo rende persino comprensibili e non più scandalosi i voltagabbana». In questa società liquida, ci ricorda ancora Bauman, prevale la paura del futuro, davanti alla prospettiva di un domani che non sembra apparire migliore del presente, si tende a prediligere uno «ieri» usato, un po’ ammaccato, ma rassicurante. Si finisce, perfino, per inventarsi un passato migliore, affidandoci a ricordi avvolti nella nebbia o artificialmente colorati. Le esperienze del passato, imperfette, perfino dannose, ma sperimentate e conosciute, sembrano apparirci molto più sopportabili delle novità imprevedibili del futuro. E in questa logica va letta anche la paura e l’assurdo rifiuto della raccolta differenziata porta a porta che l’ex sindaco Azzollini, in versione populista, oggi cavalca, parlando alla pancia della gente, a proprio vantaggio elettorale e contro i reali vantaggi economici e sociali della innovazione. La paura del futuro prevale sulla speranza, si teme di tornare indietro, di perdere la posizione sociale e il benessere guadagnati con fatica e ci si affida al primo capopopolo in grado di imporre il governo della mano forte, magari assumendo sulle proprie spalle la responsabilità delle proprie azioni e scaricandola dalle nostre spalle. E così il concetto di partecipazione svanisce nel nulla, oppure viene letta in senso nettamente contrario: scelta del capo che si assume le responsabilità, lasciandoci nel presente o ancora meglio, portandoci nel passato, attraverso una macchina del tempo che ci permetterà di dimenticare o perdonare quell’epoca fatta di cattiva politica, di scandali, arresti, inchieste della magistratura, spreco di denaro pubblico, opere pubbliche incomplete per difetti di origine e progettazione mai risolti. Poi, magari, se tutto va male, si può sempre abbattere il tiranno. Oggi spazio al demagogo di turno e dagli all’untore, accusato di eccesso di critica, quando in realtà, chi critica vuole conservare la memoria singola che quella collettiva vorrebbe far dimenticare. In realtà, la critica anche feroce serve a mantenere la nostra identità individuale, la possibilità di ragionare con la propria testa, conservando la schiena dritta. E’ il trionfo del divorzio tra il potere e la politica quella con la «P» maiuscola e i demagoghi in circolazione spingono verso l’ignoranza di massa che diventa un valore, come ricorda sempre Bauman, con l’accettazione della volgarità come linguaggio corrente. Una volta, ricorda il filosofo, una grande e non scrivente maggioranza dell’umanità leggeva ciò che glialtri scrivevano; oggi questa divisione del lavoro è stata abolita grazie a Facebook, Twitter e i loro simili. «E’ bastata un’operazione facile: abbassare significativamente l’asticella del livello della scrittura e della pubblicazione», con uno scambio: in cambio di questa libertà di comunicazione, l’esercizio della scrittura è slegato al dovere della lettura. «L’uomo che scrive, oggi, non ha tempo per leggere, e tantomeno avverte la necessità di leggere». Oggi tutti possiamo (anche se grazie a Dio non tutti lo vogliamo) diventare come quel noto personaggio, quel giornalista, quello scrittore. L’ignoranza non è più un ostacolo alla carriera, anzi la favorisce, vedi i vari Trump e Salvini, dando spazio alla propria ambizione di diventare famosi, appagando la propria vanità e rifiutando quelle che vengono viste come «caste o élite intellettuali». Su Facebook tutti possono scrivere di tutto e di tutti, sentendosi protagonisti, magari anche diffondendo ‘‘bufale’’ pur di attribuirsi credibilità e fare colpo sulla marea dei navigatori virtuali. Questo sentimento populistico diffuso del XXI secolo, ci ricorda gli anni Venti e Trenta del XX secolo, che furono preludio alle dittature e alle guerre mondiali. Intanto, paradossalmente nella richiesta di orizzontalità, alla fine si favorisce la verticalizzazione della società: cancellando la classe media aumentano le disuguaglianze, gli esclusi non si sentono rappresentati e reagiscono con rabbia. Massimo Cacciari, filosofo e politico, però, ci ricorda che «la democrazia implica fisiologicamente in sé valori aristocratici, l’idea di premiare i migliori», mentre mettendo in discussione l’egemonia culturale del ceto medio, si è cancellata questa vasta area di popolazione, aumentando la soglia di povertà e la forbice tra ricchi e poveri. Perfino la sinistra o quella che si considera tale, come il Pd di Renzi, non riesce più a parlare alla gente e la distanza con la politica cresce, mentre aumenta la crisi economica, la disoccupazione dei lavoratori espulsi sempre più dalla produzione e «l’inoccupazione giovanile» come la chiamava Gaetano Salvemini. Quale credibilità può avere una classe dirigente che spiega sempre più spesso ai giovani (sempre più precari) che non è più possibile fare lo stesso lavoro tutta la vita, mentre la mobilità non è prevista per i politici che, pur sconfitti dalla storia, dal tempo e dalle stesse urne, tornano a riproporsi come dinosauri senza tempo, vedi i vari vecchi della politica locale, che pur di tornare nella stanza dei bottoni, propongono e si prestano a improbabili ammucchiate al centro, alla faccia del rinnovamento e cambiamento che, per loro, va cancellato senza pietà e considerato un incidente della storia. Tempi duri ci attendono: sarà difficile costruire una nuova classe dirigente, senza passare dalla ricostruzione della fiducia, della legittimità, delle regole e soprattutto del primato della legge che deve essere veramente uguale per tutti. E non più uguale per qualcuno più potente di altri. Senza queste premesse, si finisce col tornare indietro alla stagione degli scandali, che qualcuno vuole fare dimenticare. Forse occorre rispolverare la cultura classica della culla della democrazia. Solo una nuova paideia può salvarci dalla società liquida.

Autore: Felice de Sanctis
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