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Salvemini fra disimpegno politico e incremento degli studi nel ’22
15 marzo 2022

Dopo la crisi politica aperta il 2 febbraio 1922 dalle dimissioni di Ivanoe Bonomi, con le successive rinunce di Enrico De Nicola, Vittorio Emanuele Orlando e Filippo Meda l’incarico per la formazione di un nuovo governo fu assegnato a un personaggio di secondo piano, Luigi Facta, fedele luogotenente di Giolitti in Piemonte, ma uomo privo della sagacia e dell’autorevolezza dello statista monregalese. Di lui Denis Mack Smith nella Storia d’Italia scrive: «Aveva scarsa esperienza di cariche di responsabilità, non essendo che un timido e ignorante avvocato di provincia, la cui nomina fu presa in un primo tempo quasi come uno scherzo ». Del resto Vittorio Emanuele III e i suoi consiglieri avevano ipotizzato il suo come un governo di transizione, per preparare magari il ritorno di Giolitti. Il 25 febbraio 1922 sul n. 2 del mensile fascista Gerarchia, con l’articolo “Da che parte va il mondo?”, Mussolini concludeva che il mondo andava a destra, non perché mosso da un’infatuazione passeggera, ma in quanto spinto da «una revisione di valori assai più vasta e radicale». Era stata la guerra a liquidare «il secolo della democrazia, del numero, delle maggioranze, della quantità», divenendo lo spartiacque ideale fra due età, quella della democrazia e del socialismo da una parte, e quella dell’antidemocrazia, dell’individuo e delle aristocrazie dall’altra. In quello stesso giorno Facta riuscì a formare un ministero, non a caso spostato a destra, in virtù di un accordo fra democratici e popolari. Contro il parere di don Luigi Sturzo, ostile a Giolitti, Alcide De Gasperi e Stefano Cavazzoni, che avevano condotto le trattative per il Partito Popolare Italiano, accettarono il gabinetto Facta come espediente di ripiego ed ebbero il consenso del Parlamento. Il 18 marzo Facta ottenne la fiducia della Camera con 275 voti favorevoli e 89 contrari. Votarono contro socialisti e comunisti, mentre si espressero a favore tutti i rimanenti, compresi i salandrini, i nazionalisti e i fascisti. Il 21 marzo, grazie a parecchie assenze nelle file dei deputati del centro e della destra, dalla Camera venne approvata una mozione di condanna delle violenze fasciste, che non accennavano a diminuire. Per contro il 26 marzo a Milano si svolse una grande adunata di circa 20 mila camicie nere provenienti da tutta la Lombardia, che culminò in un corteo dimostrativo. In quel periodo Gaetano Salvemini, anche per reagire al disgusto per la deprimente fase della politica italiana, si era gettato anima e corpo nell’insegnamento universitario, nelle conferenze e negli studi storici. È ciò che risulta, fra l’altro, da una lettera fiorentina del 22 marzo 1922 a Elsa Dallolio. La corrispondente aveva conosciuto lo storico nel 1912 mediante Fernande Dauriac Luchaire, futura seconda moglie di Salvemini, la quale era intima amica di Gina Dallolio, sorella di Elsa e moglie dello scrittore d’arte Carlo Galassi Paluzzi. Elsa Dallolio era nata nel 1890 a Bologna da Augusta Hiller e Alfredo Dallolio, tenente generale dal 1914, commissario generale per le fabbricazioni di guerra dal 1915, senatore dal 1917 e ministro delle Armi e Munizioni fra il 1917 e il 1918. La Dallolio, valente crocerossina durante la Grande Guerra e donna politicamente impegnata in senso liberaldemocratico, intratteneva rapporti di amicizia e di stima, oltre che con Salvemini e Fernande Dauriac, con Giuliana Benzoni, Bernard Berenson, Giani Stùparich, Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Manara Valgimigli e Umberto Zanotti Bianco, col quale collaborava nell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno. In maniera defilata, aveva dato il suo apporto all’Unità di Salvemini con articoli sui problemi dell’emigrazione ed era stata segretaria della Lega Democratica per il Rinnovamento della politica nazionale, che nel 1919-20 aveva raccolto gli amici dell’Unità ad iniziativa dello storico e parlamentare. In una sua cartolina a Salvemini, Elsa Dallolio gli aveva rivelato di trascurare la propria salute. L’affermazione dell’amica trentaduenne aveva allarmato il professore molfettese, che per essere vicino ai quarantanove anni, reagì con un affettuoso rabbuffo “paterno”: «Cara Elsa, leggendo la Sua cartolina, mi è venuto voglia di bastonarla. Come si fa a dire che non si cura e che non ha troppa fretta né desiderio di guarire? Questa è una bestialità, degna di una vecchia zitella inglese. Lei zitella è; ma non è né vecchia, né inglese, dunque, faccia il piacere di avere giudizio. E faccia il piacere di fare il Suo dovere, curandosi bene e cercando di ristabilirsi presto». Salvemini passava poi a comunicare le sue intenzioni sugli eventuali spostamenti nel mese entrante per ragioni di studio a Palermo o a Como o a Venezia, non senza nascondere il suo desiderio di recarsi a Santa Fortunata, amena contrada del Capo di Sorrento, dove si trovava la villa di donna Titina Ruffino Benzoni, in cui spesso soggiornava la figlia Giuliana Benzoni, amica di Elsa Dallolio. Lo storico ipotizzava in alternativa anche un giro automobilistico col giovane Novello Papafava de’ Carraresi, già collaboratore dell’Unità salveminiana. Ecco le sue parole: «Per il prossimo aprile, non ho nessun piano ben definito. Forse, dovrò andare a Palermo a copiare documenti per la storia della Triplice [Alleanza]. In questo caso, farò certo una capatina, nell’andare o nel tornare a Santa Fortunata, se avrò la certezza di non trovare disabitata questa ben nota capitale. Ma se va per aria la corvée di Palermo, temo di dovere non allontanarmi dal Nord. In questo caso, vado probabilmente a copiare altri documenti a Como o a Venezia. Ma potrebbe darsi che faccia un viaggio in automobile con Novello: il quale sta poco bene di nervi, e mi pare abbia bisogno di essere scosso, e vorrei scuoterlo io, che i nervi li ho solidi, specialmente dopo che ho detto addio alla Camera dei rappresentanti del popolo. Come vede, tutto è possibile». Nella sua cartolina, la Dallolio aveva accennato all’eventualità di una visita che avrebbe potuto fargli il giovane scrittore triestino Giani Stùparich, volontario nella Grande Guerra, già collaboratore della Voce nel 1913-14, autore del trattato storico- politico La nazione czeca nel 1915 e articolista per l’Unità di Salvemini nel 1920. La risposta all’allettante notizia fu la seguente: «Se Stuparich viene a Firenze, mi farà un gran regalo venendomi a trovare. Io ho lezioni qui fino all’8 aprile. Quindi è sicuro, fino a quella data, di non mancarmi. E sarò incantato di dirgli tutto quel che so per due lezioni sul Mazzini. Proprio di questi giorni sto facendo una serie di lezioni su Mazzini al British Institute e all’Università popolare di Firenze. E domenica passata fui a Milano all’Università proletaria. Quindi mi troverà sotto pressione». Più esattamente a Milano era stato domenica 12 marzo per tenere una conferenza su Mazzini e il socialismo, di cui un resoconto era apparso sull’Avanti! del 14 marzo. Tralasciando l’articolo Dove va la Picco- la Intesa?, uscito il 4 marzo su Il Secolo di Milano, Salvemini nel mese di marzo era alacremente impegnato nelle lezioni universitarie, in alcune conferenze mazziniane, nella revisione delle bozze di stampa di due libri, uno dello scomparso Leonida Bissolati e uno suo, intitolato Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano. E come se non bastasse, era affaccendato pure nell’assemblaggio di alcuni articoli apparsi sul quotidiano socialista Il lavoro di Genova e sulla rivista gobettiana La Rivoluzione liberale, per dar corpo al volume Il Partito popolare italiano e la questione romana, che sarebbe uscito di lì a pochi mesi. Per dare un’idea dell’intensità degli impegni intellettuali di quel periodo, Salvemini stese addirittura un preciso elenco alla sua corrispondente: «In questi giorni sto lavorando come un bruto: a) lezioni all’Istituto [di Studi Superiori di Firenze]; b) conferenze al British; c) conferenza all’Università popolare; d) correzione delle bozze del volume di discorsi e scritti di Bissolati; e) correzione delle bozze d’un mio volume sul movimento operaio italiano; f ) preparazione di un volumetto sul Partito popolare». Ripensando poi al faticosissimo periodo parlamentare del 1919-1921, subito dopo lo storico aggiungeva con un certo sollievo: «Se fossi stato deputato, avrei potuto fare tutto questo? No. Dunque viva Giolitti che sciolse la Camera e mi ridette la vita e la libertà ». Salvemini infine chiudeva la sua lettera con una nota lieta sulla presenza a Firenze del figlio della sua consorte Fernande Dauriac, Jean Luchaire con la moglie Françoise Besnard e la loro deliziosa figlioletta Corinne, gioiosa presenza che gli offriva il destro per invitare amichevolmente Elsa Dallolio e Giuliana Benzoni a maritarsi, con l’auspicio sottinteso di non privarsi delle gioie della maternità, rinunciando al nubilato: «Abbiamo qui Jean con la moglie e la bambina. È una gran festa questa piccina d’un anno. Perché la Giuliana e Lei non prendete marito?». Era la dolorosa perdita dei suoi cinque figli nel terremoto di Messina del 1908 che lo spingeva continuamente a specchiarsi e bearsi nella gioia dell’altrui figliolanza. © Riproduzione riservata

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