Dopo la disfatta di Caporetto, imputabile ai generali Luigi Cadorna, Luigi Capello e soprattutto Pietro Badoglio, per l’Italia la guerra divenne eminentemente difensiva, una vera e propria guerra di sopravvivenza nazionale. Gli italiani di ogni classe sociale e colore politico finirono per unirsi nella più tenace volontà di resistenza al nemico. Nei primi anni Quaranta del Novecento, mentre insegnava all’università di Harvard, Gaetano Salvemini più di una volta ebbe modo di ripetere al suo assistente Enzo Tagliacozzo: «Il 1918 fu un anno bellissimo della storia italiana. Assistemmo ad uno slancio meraviglioso di tutto il popolo italiano». In un articolo poco noto del 10 gennaio di quell’anno, intitolato La guerra nel 1918, Salvemini osservò su L’Unità che il fatto stesso che l’Austria-Ungheria e la Germania non erano state «capaci di sfruttare a fondo lo sfacelo di Caporetto» e che per lanciare l’offensiva contro l’Italia erano dovute rimanere sulla difensiva su tutti gli altri fronti, non era che una «nuova caratteristica prova, che nonostante l’annullamento militare della Russia» seguito alla “rivoluzione d’ottobre”, esse erano ornai sfiancate e conservavano sulla Triplice Intesa una superiorità «appena sensibile», destinata a venir meno per la sempre più massiccia entrata in campo degli Stati Uniti d’America con uomini e materiali. La tremenda lezione di Caporetto non era andata perduta. La durissima disciplina militare imposta da Cadorna fu mitigata con Armando Diaz; gli inglesi e gli americani mandarono in Italia grano e altri rifornimenti; le razioni delle truppe furono aumentate; le licenze ai soldati e l’avvicendamento dei fanti che erano stati in trincea diventarono più frequenti. Il pedagogista Giuseppe Lombardo-Radice, dal settembre 1917 sottotenente volontario sul Monte Pasubio, nella zona di Vallarsa, presso il Comando del Genio del V Corpo d’Armata, addetto all’Ufficio Propaganda, nel febbraio del 1918 propose Salvemini ai suoi superiori per alcune conferenze da tenere agli ufficiali. Lo storico accettò l’incarico e nella mattina del 27 marzo a Schio, nel Vicentino, parlò, applaudito a lungo, a un centinaio di ufficiali ben motivati, venuti dalle prime linee per il corso di perfezionamento e vicini a tornare al fronte. Più o meno in quel periodo si colloca una conferenza salveminiana ricordata in Il nostro Salvemini, un articolo pubblicato nel luglio 1955 sul n. 7 del Ponte da uno dei padri della Costituzione italiana, Piero Calamandrei, che, sia pure con una lampante imprecisione cronologica («nell’ottobre o novembre del 1916»), ci riporta icasticamente «in una giornata di neve, a Pian delle Fugazze, ai piedi del Pasubio, ove il mio reggimento era sceso a riposo dalla prima linea. Fummo convocati una sera, noi ufficiali, nella baracca del comando per ascoltare una conferenza: vi andammo di mala voglia, perché avevamo in odio i conferenzieri che venivano dall’interno a parlare della guerra, a noi che ci stavamo in mezzo. Ma quando di sotto al mantello spruzzato di nevischio vennero fuori la barba e gli occhiali di Salvemini, accompagnato e presentato da un ufficiale di milizia territoriale barbuto anch’egli come un profeta (era Giuseppe Lombardo Radice), le cose cambiarono. Nella baracca si fece un gran silenzio: e passò su quell’uditorio di giovani che la guerra aveva disabituato dal pensare, l’onesta chiarezza rasserenatrice di quel pensiero civile, che mi aveva incantato giovinetto dieci anni prima: e nelle pause riconobbi quell’aperto sorriso che veniva alla fine di ogni periodo; come a suggellare la fiducia nella ragione e nella comprensione umana». Considerando la fanteria il nerbo dell’esercito italiano, Salvemini su L’Unità del 27 aprile 1918 scrisse: «È necessario trattare bene la fanteria specie quando è in trincea. […] Chi vive in trincea (morire è nulla in confronto di quella vita) è sempre un eroe e un santo: è fatto eroe e santo dallo star lì continuo. In nessun tempo si chiese a uomo tanta resistenza, tanto coraggio, tanta abnegazione. […] Oggi si domanda il massimo disinteresse nel servire la patria; ma che cosa abbiamo fatto in sessant’anni di unità italiana per far sentire al contadino (che è quello che sta in trincea) la Patria? E se la sentisse, credete che basterebbe per resistere tanto alla vita di trincea? […] È necessario compensare il fante di tutto quello che soffre più degli altri. […] Sieno subito tolte a tutti i soldati, che non sono in trincea, e anche a tutti gli ufficiali che non sono in trincea, le indennità speciali; e si dieno invece a quelli che sono in trincea – truppa e ufficiali. […] Si vesta il fante meglio degli altri, e gli si dia un distintivo d’onore. […] Che il tabacco in trincea abbondi. Non si dice come sia demoralizzante la mancanza di tabacco in trincea. […] Non si abusi di quelle Brigate che si sono dimostrate valorose. Esse seguiteranno ad essere tali, che su loro si possa fare serio assegnamento nei momenti più gravi, se si manderanno a riposo come le altre. E mandare a riposo le Brigate molto, molto più indietro, dove non giungano troppi segni della guerra, dove ci sieno molta popolazione civile e svaghi. E quando i soldati sono a riposo, non costringerli a troppe istruzioni. Ne restano demoralizzati». Fra il 3 e l’8 maggio Salvemini fece un giro di propaganda al fronte nell’Alto Vicentino, dove tenne parecchi discorsi a molti gruppi di soldati e incontrò Piero Jahjer, vociano partito volontario nel 1915 e allora tenente della milizia territoriale nel corpo degli alpini, incaricato dal generale Enrico Caviglia, l’anti-Badoglio, di dirigere L’Astico, «giornale della trincea» della IX Divisione e della 1a Armata. La redazione del settimanale, che operava nell’àmbito dell’appena istituito Servizio «P.» (Servizio di propaganda, sorveglianza e assistenza del regio esercito), si trovava a Piovene, nel Vicentino, alla base della Val d’Astico. Il 9 maggio 1918, sul n. 13 dell’Astico, Jahjer, usando come pseudonimo il titolo stesso della testata, pubblicò l’editoriale Perché vinceremo. Nell’articolo si legge: «Un vero amico del popolo è venuto quassù a parlare ai soldati. Ha parlato ai fanti, agli alpini, ai bersaglieri, ascoltato dappertutto con attenzione amorosa. Parlava alla buona, col calore semplice della convinzione, come un buon compagno più esperto a guidare. E, difatti, era un buon compagno, un vecchio amico del popolo italiano: Gaetano Salvemini. In pace aiutava il popolo a combattere per la giustizia sociale, e tanti soldati, contadini in uniforme, l’han riconosciuto e lo fermavano per stringergli la mano. […] Per cominciare ci ha portato una sorpresa questo amico. Non è venuto a propagandare; a pregar i soldati di fare il loro dovere. […] Salvemini, invece, è venuto a ringraziare il popolo in uniforme che subito dopo “la disgrazia” [di Caporetto] si è ripreso e tien duro alle frontiere. […] E dopo aver ringraziato […] ci ha portato una notizia buona […] Coraggio, perché ce la faremo. E questa notizia ce l’ha ragionata sui fatti, da uomo che conosce la storia dei popoli e li sa misurare. […] La Germania non può sperare in nessun nuovo aiuto né di uomini, né di armi, né di denari […] Noi invece la nostra condizione migliora e migliorerà sempre. La buona causa ci fa sempre nuovi amici. È partita la Russia e arriva l’America, coi suoi 100 milioni di uomini […] Le riserve stanno per noi e sono le riserve che vinceranno la guerra. Ci basta resistere per arrivar primi al traguardo, uscir di tribolazione, conquistar la vittoria. […] Teniamolo fermo questo bravo cuore italiano: e non passeranno mai». Affannato dai continui spostamenti del tour propagandistico bellico, Salvemini, tornato a Firenze, il 10 maggio seguente non nascondeva all’amico Giuseppe Prezzolini la sua spossatezza: «Sono stato al fronte in giro di propaganda […] Sono stanco delle conferenze fatte ai soldati; e temo di non aver fiato per lavorar bene al giornale» L’Unità. Ma non era ancora finita. Nella primavera del ’18 Salvemini compilò, per la Sezione «P.» del Comando della 1a Armata, anche un opuscolo di 46 pagine intitolato Schemi di Conferenze ai giovani Ufficiali Subalterni e di Conversazioni coi soldati, uno dei “Quaderni” per il «Collegamento morale» editi dall’Ufficio Centro di Collegamento colle prime linee del X Corpo d’Armata. Il lavoro fu dedicato al generale Giovanni Battista Ghersi, «Comandante d’Armata Mobilitata, ricordando con gratitudine d’italiano i giorni passati presso le sue belle truppe», e risultò utile come guida per gli ufficiali propagandisti sia a sostegno dell’immenso sforzo bellico italiano, sia contro la residuale campagna disfattista. Dal 15 al 23 giugno gli austro-ungarici, per mettere fuori causa l’Italia e cercare di risolvere la sempre più grave crisi interna, lanciarono una grande offensiva dall’altopiano di Asiago alle foci del Piave, lungo un fronte di 153 chilometri. Nella seconda battaglia del Piave o del solstizio, inizialmente i nemici riuscirono a passare il fiume lungo un settore di 25 chilometri e raggiunsero l’ultima linea di difesa sul Montello, ma alla fine il loro attacco si spense e si tramutò in ripiegamento. La controffensiva italiana, che si giovò dell’efficace impiego dell’aviazione e si sviluppò soprattutto sul Montello, raggiunse fra il 23 e il 24 giugno quasi ovunque le precedenti posizioni. Contribuirono alla grande vittoria anche gl’intrepidi ragazzi del ’99, che avevano avuto il battesimo del fuoco sul Piave già nel novembre del 1917. Il generale tedesco Paul von Hindenburg nelle sue memorie scriverà: «Da questo momento la Monarchia danubiana aveva cessato di essere un pericolo per l’Italia». Non per questo Salvemini smise la sua opera propagandistica, anzi la proseguì nel mese successivo. Nel luglio del 1918, infatti, tenne agli ufficiali dell’Armata degli Altipiani una conferenza intitolata Perché la Germania non può vincere? Perché non l’abbiamo vinta ancora? Perché la vinceremo? La conferenza, che riprendeva e sviluppava le argomentazioni salveminiane riportate da Jahier sull’Astico, fu poi raccolta in un opuscoletto di 20 pagine per l’Ufficio Informazioni del Comando della VI Armata. Salvemini spiegava che la Germania non aveva vinto nel 1914 per gli errori di calcolo dei suoi capi in merito al comportamento dell’Inghilterra e dell’Italia. Se la guerra perdurava ancora nel 1918, questo era dovuto all’impreparazione militare dell’Inghilterra e dell’Italia nel 1914 e nel 1915, oltre che al crollo della Russia. Tuttavia il massiccio intervento statunitense troncava ormai qualunque dubbio sull’esito finale del conflitto. Lo storico, ricordando la sua esperienza di vita in trincea, raccomandava agli ufficiali che lo ascoltavano di seguire lo stesso metodo argomentativo nell’incitare e dare spiegazioni ai propri soldati. Il 5 agosto Salvemini parlò alla Scuola di specializzazione per mitraglieri di Porretta, in Emilia-Romagna. Su questa positiva esperienza il giorno dopo da San Marcello Pistoiese scriveva all’amico Ugo Ojetti: «Fui ieri alla scuola mitraglieri di Porretta; 3000 ragazzi tutti del 1900; entusiasmo commovente; questa classe del 1900 è più bella di quella del ’99». Invitato dal generale Caviglia, lo storico, muovendosi da Padova, ancora verso la fine di agosto, andò a tenere conferenze alla VIII Armata presso il fronte. Per questa propaganda fra i soldati, Gaspare de Caro, nella sua biografia Gaetano Salvemini (Utet, Torino 1976, pp. 267-268), attribuisce allo storico pugliese «fatue promesse, paterne menzogne, sapienti ricatti», il «solito sacerdotale vaniloquio sull’ “ultima guerra”, l’ovvio consolo della buona morte», «raccapriccianti grida di allarme contro i disfattisti», il silenzio sulla «feroce repressione torinese dell’agosto 1917», e la condanna degli operai settentrionali «esonerati e dispensati e imboscati». In realtà de Caro, pur cogliendo nel segno su certi eccessi della polemica antioperaia salveminiana, non comprende l’estrema coerenza dell’interventismo democratico di Salvemini, che, dopo aver bruciato in breve tempo la sua fugace esperienza di volontario, s’impegnò poi a tutt’uomo sulla stampa e di persona nell’invocare tenacemente concordia d’intenti, nervi saldi e nuovi sacrifici alle donne, ai cittadini e soprattutto ai militari per sbarrare la strada al nemico e trasformare lo smacco di Caporetto nell’agognata vittoria finale. © Riproduzione riservata
Autore: Marco Ignazio de Santis