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La caduta di Tommaso Minervini: cosa insegna la storia la storia politica di Molfetta
Tommaso Minervini
24 ottobre 2025

MOLFETTA - Dopo Antonio Azzollini, della cui parabola politica avevo annunciato la fine nel 2018 (https://quindici-molfetta.it/la-caduta-del-sovrano-si-chiude-l-era-azzollini-a-molfetta_41578.aspx), è arrivata anche l’ora di Tommaso Minervini. Si tratta di personaggi assai diversi, la cui fine però presenta delle interessanti analogie, che possono suggerire alcune indicazioni per il futuro della politica a Molfetta.

Anche Tommaso Minervini, come Azzollini, è stato animato, nella sua ascesa politica, da una grande passione per la città, e da un radicamento genuino nella sua storia e identità. Azzollini aveva un’idea verticistica e decisionistica della politica: la sfida per lui era riuscire ad attuare la sua visione di città, costasse quel che costasse. Egli sembrava rievocare il Politico di Carl Schmitt, la politica come decisione, oltre la mediazione e la concertazione: gli interessi di parte vanno assecondati nella misura in cui si inseriscono nella visione del Sovrano, o altrimenti annichiliti. Al centro della sua visione di città le grandi opere, in primis il grande porto commerciale, che avrebbe dovuto costituire il segno inequivocabile e imperituro del suo impatto, potente e decisivo, sulla città. A futura memoria, insomma.

Tommaso Minervini, invece, ha inteso in maniera meno magniloquente il suo ruolo politico: non una grande opera, ma tante piccole opere di buona, ordinaria amministrazione. Tanti lavori pubblici, la riqualificazione di strade, piazze, parchi, pur con alcuni limiti, testimoniano questo modello di riferimento, che cerca di affogare la dimensione politica nella sfera amministrativa. Minervini ha spesso aggirato il momento della dialettica politica fra visioni diverse di città anteponendo un’idea astratta di bene comune, facendo passare come “naturale” un certo modo di vedere le cose e di “ordinare” la città. La politica è diventata, nella sua narrazione, la gestione dell’ordinario, oltre ogni ragionevole dubbio: quando c’è il bene comune al centro, non c’è bisogno di dibattere ulteriormente. “Civiltà contro barbarie”, era il suo motto durante la campagna elettorale del 2017, in cui vinse contro Isa de Bari.

Eppure, al di sotto di questa azione amministrativa si sono annidati interessi di parte che hanno finito col far saltare il banco, che richiedevano, appunto, mediazione, dialettica e forse – perché no? – conflitto. Non tutte le posizioni sono equivalenti, e non si amministra la città scadendo in una visione impolitica dell’esistente. La politica è confronto fra visioni del reale: alcune visioni possono giungere a sintesi, altre sono incompatibili. Al di sotto del velo narrativo astratto della buona amministrazione, hanno continuato a scontrarsi interessi non mediati politicamente, che hanno portato all’esplosione del gruppo dirigente.

Azzollini aveva un’idea di città che sovrastava singoli e gruppi imprimendosi potente su corpo sociale pensato come informe: esso si sarebbe inverato solo nella voce del Sovrano. Eppure quel corpo sociale è esploso, e ha travolto Azzollini stesso, mostrando la parzialità di quel progetto politico, che si pretendeva unitario e totalizzante. Dall’altra parte, il metodo di Minervini, centrato sul bene comune e sulla buona amministrazione, ha pure dovuto fare i conti col fatto che non esiste un modo tecnico, e per questo assoluto, di amministrare la città: il suo progetto avrebbe dovuto farsi carico delle differenze che animavano la sua maggioranza, pena la riemersione, al di fuori della dialettica politica, degli interessi non rappresentati. È abbastanza ridicolo, ad esempio, il fatto che molti dei dissidenti abbiano addotto come causa della rottura il fatto che alcuni esponenti della maggioranza si stessero candidando, alle regionali, con la destra. Avevamo un’amministrazione di sinistra e non ce ne eravamo accorti.

Due visioni diverse, eppure centrate sul singolo, che è stato sopraffatto dalla complessità e dalla pluralità della società e della politica stessa. Un buon punto da cui partire, allora, è centralità della dialettica politica e il riconoscimento della diversità delle posizioni. È una via complessa, che richiede non solo mediazione ma anche, talvolta, scontro e rotture con visioni della società e della realtà incompatibili: la politica non è “volemose bene”, non è un pranzo di gala. In questo quadro, è necessario rifiutare sia la politica della decisione verticale, à la Azzollini, sia le scorciatoie che pretendono di bypassare il conflitto attraverso l’identificazione di un bene comune “naturale”, stabilito su base tecnica e amministrativa, verso una pretestuosa, retorica e vacua impoliticità.

Del resto, anche il modo in cui è finita l’esperienza amministrativa guidata da Paola Natalicchio dimostra questo paradigma: la maggioranza conteneva al suo interno dei pezzi incompatibili che, nell’ambito di un confronto e di una dialettica politica, sono giunti a rottura irreversibile.

Il bene comune si costruisce politicamente, anche e soprattutto stabilendo un perimetro, una idea condivisa dei luoghi in cui si vive e del futuro che si vuole progettare, oltre il quale ci sono posizioni politicamente diverse, distinte. Non è sommandosi con queste che si espande il consenso, ma definendo con chiarezza idee, confini, progetti di città. Pena il naufragio del progetto, come ancora una volta la storia insegna.

© Riproduzione riservata

Autore: Giacomo Pisani
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