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Salvemini agli inizi del ’22
15 gennaio 2022

Il 1922 fu travagliato dall’agonia dello Stato liberale postunitario, agonia che sfociò nella “marcia su Roma”. Il 18 gennaio, in un discorso tenuto a Firenze su Crisi e rinnovamento dello Stato, commemorando il terzo anniversario della fondazione del Partito Popolare, don Luigi Sturzo acutamente osservò: «Giolitti usò il suo metodo, quello di accarezzare e avvicinare per intossicare; ne rimase prigioniero, dopo aver dato una parte dell’organismo statale in mano al fascismo. Egli sperava, trasportando il fascismo in parlamento, di trasformarlo in partito politico nel campo costituzionale; e così speravano i liberali democratici di avere una balda schiera di avanguardisti; ma anche il fascismo politico si difese dalle insidie giolittiane e dagli abbracciamenti democratici; esso va in cerca di un programma che gli permetta di avere un’idea nel campo della politica interna ed estera, e cerca aiuto dai nazionalisti. […] Ma tutto ciò è forma, superficie, esteriorità: il metodo della violenza è sostanza, è anarchia, è un attentato allo Stato». Due giorni dopo, il Consiglio nazionale del Partito Socialista, in riunione a Roma dal 17 gennaio, si pronunciò con ampia maggioranza contro qualsiasi ipotesi di collaborazione con governi liberali, accogliendo l’ordine del giorno proposto dal deputato Angelo Corsi, in base al quale il partito si dichiarava «assolutamente contrario ad ogni partecipazione, o ad ogni appoggio e voto ad indirizzi di Governo». Il 24-25 gennaio a Bologna il Congresso sindacale fascista istituì la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali. All’interno di questa organizzazione confluirono le forze sindacali fasciste e nazionaliste, che propugnavano il superamento della lotta di classe in nome di un «superiore interesse nazionale» e la costituzione di sindacati unitari di produttori, cioè insieme di datori di lavoro e lavoratori. Erano così poste le prime basi del corporativismo fascista. Alla riapertura della Camera, il 1° febbraio un’assemblea di 60 deputati democratico- sociali, che reputavano il premier Ivanoe Bonomi troppo arrendevole col Partito Popolare, passò all’opposizione e approvò con 55 voti favorevoli, 3 contrari e 2 astenuti un ordine del giorno di sfiducia al Governo, dal quale tuttavia Francesco Saverio Nitti si dissociò. Benito Mussolini, per non rimanere isolato, votò contro il ministero con i suoi fautori, togliendo così alla votazione la possibilità di indicare a Vittorio Emanuele III la volontà assembleare. Il 2 febbraio Bonomi si dimise. La presa di posizione dei deputati democratico-sociali era la reazione all’atteggiamento del presidente del Consiglio, che, per non accollare allo Stato le enormi perdite accumulate dagli industriali e dai finanzieri, si era rifiutato di intervenire in salvataggio della Banca Italiana di Sconto, legata alla società “Giovanni Ansaldo & C.” del gruppo Perrone, il cui fallimento rischiava di inghiottire i sudati risparmi di emigranti e cittadini soprattutto meridionali e siciliani, base elettorale dei democratico- sociali. Costoro, provenienti in parte dal disciolto partito radicale e in parte dalle liste dei combattenti, nutrivano, sotto un’etichetta di sinistra, propensioni conservatrici e nazionalistiche. Per la soluzione della crisi, Giolitti era fuori gioco per il “veto” di don Sturzo. Perciò il re 7 febbraio offrì l’incarico per la for-mazione di un nuovo governo a Enrico De Nicola. Ma il designato, frenato dalle richieste dell’estrema sinistra e dalle imposizioni dei fascisti, rinunciò perché non era riuscito a mettere d’accordo i democratici e i popolari. Anche Vittorio Emanuele Orlando, incaricato successivamente, dovette rinunciare, in quanto sia i democratici sia i popolari condizionarono il proprio appoggio a un accordo preventivo sulla composizione dello stesso ministero. Il 12 febbraio dalle colonne del Popolo d’Italia Mussolini attribuì un significato «enorme» alla contestazione del prefetto Cesare Mori a Bologna da parte di parecchi studenti al grido di «Abbasso il Parlamento! » e «Viva la dittatura!» e all’assalto dato alla prefettura bolognese da una sessantina di camicie nere. Infatti per lui si trattava della «prima manifestazione pubblica, alla quale molte altre potrebbero far seguito, del sempre più acuto senso di disgusto che l’attuale regime parlamentare provoca e della vasta e non più inconfessata aspirazione delle popolazioni per un Governo che sappia governare». Per reagire alla repulsione ingenerata dalla paralisi parlamentare, Mussolini indicava come unico rimedio una dittatura militare. D’altra parte, il tracollo del regime liberale e il marasma parlamentare italiano, aggravato dall’atteggiamento dei socialisti massimalisti, contrari a un governo di coalizione con i popolari e i democratici, stomacavano anche Gaetano Salvemini, che attraversava uno dei periodi di più cupa e paralizzante delusione per la degenerazione politica italiana. Lo si desume, fra l’altro, da una lettera fiorentina del 16 febbraio a Oliviero Zuccarini. Zuccarini era nato a Cupramontana, un piccolo paese dell’Anconetano, nel 1883. Aveva dieci anni meno di Salvemini. Iscrittosi giovanissimo al Partito Repubblicano Italiano e laureatosi in giurisprudenza, nel 1910 a Roma era diventato redattore della Ragione, organo del PRI diretto da Ubaldo Comandini, continuando a occuparsi di questioni sindacali ed entrando a far parte del Consiglio generale della Camera del lavoro. Nel 1912 era approdato alla carica di segretario politico del PRI, che tenne fino al 1916. Negli stessi anni diresse il settimanale L’Iniziativa, organo ufficiale del PRI. Il repubblicanesimo di Zuccarini aveva innestato sulla matrice mazziniana e sul programma del suo ispiratore Arcangelo Ghisleri suggestioni mutuate dal liberista John Stuart Mill e dal sindacalista rivoluzionario Georges Sorel e si distingueva per l’adesione alle tematiche e alle lotte antiprotezioniste. Salvemini e Zuccarini erano affratellati dalla stessa esigenza di creare in Italia una «cultura politica» e dalla medesima istanza liberista, ma il primo propendeva per una soluzione in chiave marcatamente meridionalista, il secondo sottolineava piuttosto la componente federalista. Zuccarini dall’inizio del 1921 dirigeva a Roma la rivista mensile La Critica politica, per la collaborazione alla quale aveva interpellato Salvemini sin dal dicembre del 1920 e ultimamente era tornato a invitarlo per ottenere uno scritto su Mazzini, di cui ricorreva il cinquantenario della morte, o sulla politica estera dell’Italia. Salvemini aveva da poco pubblicato a Milano con i Fratelli Treves Le più belle pagine di Carlo Cattaneo, era molto impegnato con le lezioni universitarie e non intendeva inviare al direttore della rivista politica repubblicana un articolo che non fosse per se stesso particolarmente coinvolgente, per cui ripiegò sulla proposta di un eventuale utilizzo di stralci della sua prefazione al florilegio cattaneano sulle pagine del periodico ospitante. Ecco l’esordio della lettera salveminiana del 16 febbraio 1922: «Caro Zuccarini, riceverà da Milano le bozze della prefazione al volume delle pagine di Cattaneo; e riceverà anche il volume. Se crede, Ella può riprodurre della prefazione quello che ritiene meglio per la Critica. Tante volte penso di scrivere qualcosa per la Critica. Le idee non mi mancano. Ma non riesco mai a realizzare. Molto influisce il lavoro delle lezioni: negli anni scorsi ero vissuto consumando il vecchio capitale; ora mi sono rimesso a rifare i miei corsi: e questo lavoro mi interessa e mi attrae». Il rinato amore per lo studio storico e i corsi accademici non era altro che l’antidoto contro la repulsione verso la politica italiana degli ultimi tempi, come rivelava subito dopo: «Ma soprattutto, ho riportato della vita parlamentare un tal sentimento di disgusto e di mortificazione, che ogni idea di questioni politiche mi si giacerà nella testa appena mi metto a scrivere. Ho decine di lavori cominciati e lasciati a mezzo! Spero che questa inibizione mi passerà. L’Italia mi dà un senso di schifo che non avevo mai provato in vita mia prima di ora». Gli unici articoli che Salvemini aveva pubblicato agli inizi del 1922 erano appena tre: La tirannide burocratica, apparso sul quotidiano democratico “Il Secolo” di Milano il 4 gennaio, La questione romana e il Vaticano e infine La questione romana e l’Italia, usciti sul quotidiano socialista “Il Lavoro” di Genova rispettivamente il 31 gennaio e il 5 febbraio. Gli erano serviti per rimpinguare un po’ il suo stipendio universitario, insufficiente per i bisogni della famiglia di elezione e di quella di nascita, soprattutto in soccorso alla sorella Annetta, nubile e indigente. A scritti come questi Salvemini accennava, in maniera ipercritica, di rincalzo alla situazione psicologica e morale poco prima confessata: «Qualche volta riesco a finire qualche articolo; perché ne ho proprio bisogno per le necessità familiari. Ma la mando ai giornali con rimpianto e quasi con vergogna; ché mi pare roba senza calore e senza valore: roba alimentare. Ma quel che si stampa sui quotidiani non ha che scarsa importanza: non lascia traccia, e può essere anche roba da mestieranti. Ma quel che si stampa in una rivista deve essere veramente sentito». In merito alla richiesta di un contributo su Mazzini, Salvemini declinò l’invito e altrettanto fece per un eventuale scritto sulla politica estera italiana. Questa nel luglio del ’21 era stata affidata da Bonomi al siciliano Pietro Tomasi, marchese della Torretta, troppo sensibile, secondo Carlo Sforza, «agli elogi del Giornale d’Italia e dell’Idea Nazionale» e quindi ben accetto a nazionalisti e fascisti. Tra l’altro, pur non mancando di meriti, il ministro degli Esteri si era mostrato troppo prudente durante la Conferenza interalleata di Cannes sulle riparazioni di guerra (6-13 gennaio 1922), quando aveva criticato l’idea di un patto difensivo anglofrancese. Della Torretta, insieme a Sonnino, impersonificava per Salvemini tutta la sfilza degli errori e delle megalomanie della recente politica estera nazionale, che solo Sforza aveva cercato di sormontare col successo del trattato di Rapallo nel 1920. La chiusa della missiva salveminiana si riferiva a entrambe le richieste di Zuccarini: «Quanto a un articolo sul Mazzini, non ci penso. L’Italia ha avuto Sonnino; ora ha Della Torretta: se li tenga. L’idea di dover scrivere nella politica internazionale di illazioni in questo schifo paese, mi mette i brividi. | aff. G. Salvemini». A Zuccarini, di conseguenza, non restò che accettare la proposta alternativa di pubblicare una parte dell’introduzione salveminiana all’antologia cattaneana. Fu lui a scegliere per titolo Le idee politiche di Carlo Cattaneo e la causa della loro sconfitta. L’articolo apparve su La Critica politica dopo poco più di due mesi, il 25 aprile 1922. © Riproduzione riservata

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