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Ritorno di fiamma l'ultimo libro di Marco Ignazio de Santis
15 marzo 2016

“La superiorità dell’umano su tutti gli animali è che ad esso solo fu dato il privilegio del riso”. Sono parole di Aldo Palazzeschi nel manifesto del “Controdolore”, che recitava anche: “Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo”. Il riso è, insomma, qualcosa di serissimo, come dimostrava anche Umberto Eco nel suo elogio di Franti; qualcosa di talmente importante ed eversivo, da poter addirittura incarnare il movente dei delitti del “Nome della rosa”. Non ci stupiamo, pertanto, del fatto che un intellettuale del calibro di Marco Ignazio de Santis abbia dato alle stampe nel 2016, per i tipi dell’editrice Genesi, Ritorno di fiamma, libro connotato, come ha ben rilevato il critico Sandro Gros-Pietro, dalla “levità dell’espressione”, grazie all’adozione dell’ironia, come chiave di volta nella ricerca della verità. La silloge comprende, quali Tutto va ben, Madama la Marchesa, vincitore nel 2011 del secondo premio del Concorso nazionale di Poesia satirica “I fiori del bene”. La maggior parte dei testi precedentemente pubblicati ha veduto la luce tra le pagine del periodico “La Vallisa”, di cui de Santis è redattore dal 1985; i limerick sono stati tradotti in serbo per il volume Kralj špageta i kraljica vila (Il re dello spaghetto e la regina delle fate), a cura di Angela Giannelli. Molteplici sono i nodi tematici che caratterizzano la raccolta. Il titolo allude probabilmente alla ripresa di una consuetudine alla poesia satirica mai dismessa, ma ora da de Santis sottoposta a un’accurata revisione, con integrazione di nuovi testi, ai fini della realizzazione di un florilegio. Ci sembra, tuttavia, che esso possa ricondursi idealmente anche alla metafora palazzeschiana dell”incendiario”; non va, inoltre, dimenticato che Michail Bachtin sottolineava la funzione ambivalente del fuoco, strumento del riso, nella tradizione carnevalesca, nella quale esso rivestiva sì potere distruttivo, ma attuava, al contempo, un’opera di rigenerazione e purificazione. Nel corrosivo falò delle vanità di de Santis conosce immediata collocazione l’aura dei poeti vati. Lo scrittore è pienamente consapevole dell’ormai consumata débacle dell’intellettuale legislatore e gioca nelle Tre «nugae», sul filo del calembour, sui vocaboli “poeta” e “vate”, operando una dissacrante deminutio, che si avvale efficacemente, con effetto straniante, anche della citazione dantesca. In linea con i felici scherzi del Diario minimo di Eco, ma anche con la parodia paronomastica e la favola scanzonata in versi, germoglia una graziosa revisione della nostra tradizione letteraria, che riscrive, con sorridente bonomia, celebri versi ungarettiani e quasimodiani, ma, ad esempio, ammicca anche (e qui emerge la competenza glottologica) al fenomeno dell’apofonia indoeuropea. Animali parlanti restano vittime della malattia della letteratura, un po’ come l’hidalgo don Chisciotte o la velleitaria Emma, e finiscono con il vorticare in una giostra dello sberleffo, che non risparmia il montaliano maladjustement, le altisonanti divagazioni tragico- archeologiche dannunziane – degradate a “drammi osceni” – e, in ultimo, le immortali pagine del Cinque maggio, sorridentemente etichettate come “versi scemi”. Deliziosi i “ritrattini malthusiani”, in cui non mancano garbati strali a Ceronetti, “che ha ridotto la cultura / a frasette da bonbon”, all’iconoclastia di Sgarbi, allo snobismo della Laterza in relazione a quanto prodotto dai letterati di Puglia, già fulcro di una nota polemica dei lavallisiani: “il foresto fa più chic”. Dietro le maglie dell’ironia, si avverte l’amarezza per la decadenza dell’intellettualità nella società del narcisismo, dell’esibizionismo, della chiacchiera vacua da talk show. Come possono gli Argonauti, perennemente alla ricerca del vello d’oro della bellezza, farsi strada in un establishment dell’industria culturale sempre meno interessato alla scoperta delle vere gemme? Ne si deduce l’autoreferenzialità della poesia, di cui icona ci appare la vecchia poetessa di Molfetta che declama versi a una cagnetta, perché così ci sarà almeno un cane a darle retta. Eppure, anche nella falsa democrazia, regno del trionfo della demagogia e della plutocrazia, questa nobile arte dovrà pur avere ancora senso e, a maggior ragione, la satira dei saggi, con il suo fuoco dell’eversione, atto, per dirla con Palazzeschi, “a riscaldare / la gelida carcassa / di questo vecchio mondo!”. 

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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