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Riccardo Muti: prima la musica, poi le parole
15 dicembre 2010

Prima la musica, poi le parole: nell’opera su libretto del Casti e con musiche del Salieri, l’espressione era da intendersi quale imperativo categorico indirizzato al protagonista, un poeta, che si ritrovava nella poco invidiabile condizione di dover comporre in quattro dì un dramma, accomodando le parole alla preesistente musica. È il titolo che Riccardo Muti ha prescelto per l’autobiografi a, quasi a voler indicare di aver avvertito il bisogno, dopo una cinquantennale, memorabile esperienza in ambito musicale, di soffermarsi a rifl ettere sulla propria esistenza, per “farne parola”. L’esito di tale operazione è un volume notevole, corredato da numerose fotografi e, pubblicato per i tipi della Rizzoli, a cura di Marco Grondona, artefi ce anche della lucida e dottissima postfazione. Raffi nata appare anche la scelta dell’epigrafe: alcuni versi del dantesco poema paradisiaco, un tripudio armonioso di luminosità e di “melode” che rapisce empaticamente. L’autobiografi a del Muti ha tutte le caratteristiche per destare l’apprezzamento e l’interesse non solo dei melomani e dei cultori dell’opera del Maestro, ma in generale del lettore colto, per l’accattivante ars narrandi dell’autore. I molfettesi, poi, non potranno non avvertire un profondo senso di commozione durante la lettura del capitolo I, “Un violino anziché un giocattolo”, vero e proprio tributo d’amore alla nostra città, che, se non ha dato i natali al musicista (per un profetico desiderio materno), è stata teatro della sua infanzia e adolescenza. Rivive la Molfetta dei decenni Quaranta-Cinquanta, in cui automobili e telefoni scarseggiavano, al punto che il Dott. Domenico Muti circolava in calesse per le vie paesane. La Molfetta del maestro Donato Muti, nonno dell’artista e suo insegnante elementare presso la Scuola media Manzoni. I primi anni della formazione di Muti trascorrevano in un clima di assoluto rigore, come rammentano gli aneddoti relativi alla frequentazione delle medie e del liceo classico. Seguitiamo con lo sguardo il giovane Riccardo mentre scorrazza per i corridoi del locale seminario o desta scompiglio improvvisando all’organo, nel corso di una messa in Basilica, il fatale Libiamo. Lo scorgiamo peripatetico in quella che defi nisce la nostra Calle mayor, la Villa Comunale, o, più precisamente (son parole sue) “un giardino circolare”, dove gli adolescenti si scambiavano sguardi e l’amore nasceva “all’insegna dell’orologio”. Suggestiva l’osservazione antropologica relativa all’incombenza di una persistente Libitina nel nostro Sud, evocata nel nero dominante tra i colori del vestiario femminile anni Cinquanta. Un pensiero del Maestro va addirittura alla cimiteriale Giustina, l’ultima prefi ca, di cui serba un ricordo vivido. Nel primo capitolo, quello in cui si descrivono, a partire dal dono, inizialmente non proprio ben accetto, di un violino, i primi approcci al meraviglioso mondo della musica, l’autore allude all’importanza per i molfettesi del fenomeno bandistico, diff usore, con le sue “fantasie operistiche”, di un profondo amore per il melodramma nel tessuto cittadino. Muti si districa tra recite parrocchiali e di seminaristi; prende lezioni di “arte scenica” da una beghina; dirige al violino la nostrana Santa Allegrezza, suscitando, per la sua già proverbiale severità, carbonari ammutinamenti di musici. Numerose le fi gure passate in rassegna: i maestri di musica Aldo Gigante e Maria De Judicibus, il rettore Corrado Ursi, futuro cardinale di Napoli; persino il nostro amatissimo Don Tonino Bello. Di gran suggestione il momento dell’incontro, durante l’esame di ammissione al conservatorio Piccinni, con Nino Rota: connotato, non a caso, dallo sguardo “fulgidissimo e penetrante”, nonché da bonaria autorevolezza, egli fu capace di antivedere in embrione nel “Mutino” lo straordinario talento che tutti oggi gli riconoscono. I successivi dieci capitoli ripercorrono la straordinaria carriera di Riccardo Muti, dal trasferimento napoletano (con la fatale domanda di Jacopo Napoli: “Hai mai pensato di dirigere?”) a quello milanese, in ben altro clima (non privo di pseudoseriosa bonomia: si pensi alla battuta di Votto). Cominciano i successi: dolce il ricordo degli anni del Maggio musicale fi orentino, con nume tutelare Gui (ma spiccano anche Richter e Vlad). Il periodo non fu privo di scelte coraggiose e in parte contestate; mi riferisco alla levata di scudi in merito alla scelta, per la stagione invernale del ’70-’71, di Pagliacci e Cavalleria rusticana, bollate da critici piuttosto miopi come opere “di basso livello artistico”, cui Muti cercò di restituire la pristina nobilitas, deturpata da “eff ettacci e overdosi di verismo”. Da Firenze a Londra, da Salisburgo a Philadelphia alla Scala, passando per il San Carlo: sono solo alcune delle tappe di un itinerario coraggioso, teso, ci pare, a uno studio di ciascuna partitura iuxta propria principia, nell’intento di far rifulgere le geniali intuizioni autoriali, spesso immolate sull’altare di una tradizione di “bel canto” più incline a valorizzare la baldanza tenorile o il virtuosismo di un soprano. Muti ne ripercorre alcuni esempi con raffi natissima ironia, che culmina nell’immagine del rogo alle ginocchia della zingara Azucena, mentre il coro resta statuariamente immobile e Manrico sembra interessato a sfoggiare un “Do di petto che Verdi non scrisse” piuttosto che a salvare la diletta, presunta madre. Ma sorridiamo anche nello scorgere sempre il ruspante Manrico (spesso ci si dimentica di come in realtà egli sia un poeta e non un guerriero di professione) unirsi a Leonora del tutto a sproposito in Sei tu dal cielo disceso in nome di un malcelato presenzialismo tenorile, o nell’udire Alfredo Germont porre l’accento sui propri bollenti spiriti piuttosto che sull’abilità della Valéry nel temprarne il giovanil ardore. Muti ci off re illuminanti accessus a opere non di rado intaccate nella loro coerenza drammaturgica da allestimenti tesi a privilegiare il guizzo dell’interprete. A volte, la rifl essione mutiana si concentra su passaggi rapidissimi, quali l’urlo lacerante a conclusione della Cavalleria di Mascagni.Prima la musica, poi le parole è una vera e propria miniera di spunti interessanti. Di incontri... Si potrebbe muovere da quello con la futura moglie Cristina Mazzavillani: la prima volta il maestro, col suo cipiglio “incagnato” (per dirla alla Scotellaro), la scacciò imperiosamente dalla Sala Puccini. Incontri con grandi registi, direttori d’orchestra, musicisti, cantanti, compositori, personalità politiche: da von Karajan a Ronconi, da Ormandy a Casadesus a Orff , dalla Tebaldi alla verdiana e spiritosissima telefonata con la Callas, da Pavarotti a Di Stefano, da Giovanni Paolo II a Elisabetta II. Molti altri ancora se ne potrebbero citare... Il volume ci introduce nel backstage operistico: assistiamo alle prove della celebre lettera di Lady Macbeth da parte di Leyla Gencer, ad esempio. Ci diverte, quando il Neapolitanum acetum degli orchestrali coglie l’incongruenza di un titolo di Strauss, Am Strande von Sorrent (Sulla spiaggia di Sorrento): “Ma quande mai a Surriento c’è stata ‘a spiaggia!”. Ci commuove, mentre assistiamo all’addio di Valentina Cortese alla scaligera Sala Gialla: l’attrice pare quasi danzare lentamente nel silenzio, rievocando in Muti l’ultima danza dell’“adolescente” della Sagra della primavera di Stravinskij... Ci educa al rispetto delle tradizioni altrui, oggi merce rara: durante un’esecuzione del Mefi stofele di Boito in Tunisia, si leva la preghiera di un muezzin “da una lontana moschea” e l’orchestra si ferma, suscitando l’applauso fragoroso del pubblico. Tutto questo è possibile grazie al potere della musica “che non ha confi ni”, come ha dimostrato a Muti l’esperienza di un concerto nel carcere di Bollate... La prima immagine che l’artista coglie è quella di una grande cancellata in ferro; poi però le si sovrappone il ricordo dei visi dei detenuti intenti all’ascolto e dell’ “umanità meravigliosa” che quell’insolita giornata dischiuse al Muti. Perché la musica, che compositori ed esecutori ci donano come estremo “atto d’amore”, è in fondo capace di raff orzare anche la “social catena” e di avvincerci, insegnandoci che la bellezza non è necessariamente un paradiso perduto.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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