Recupero Password
Quel cretino di Garibaldi
15 gennaio 2008

In data 4 marzo 1861 il Parlamento subalpino, riunitosi dopo la caduta di Gaeta, ultima roccaforte dei Borboni, proclamò l'unità d'Italia. L'eccezionale capacità politica di Cavour, l'abilità guerrigliera di Garibaldi, la relativa diffusione del pensiero mazziniano (presso una certa borghesia colta e capace di iniziare ad elaborare una concezione democratica dello Stato) il sangue dei caduti sui campi di battaglia della Lombardia e quello dei contadini trucidati a Bronte… insomma una serie contrastante di eventi, un agire e pensare di opposte personalità confluirono a creare l'unità d'Italia. Ma… A quell'unificazione si era giunti grazie ai plebisciti ossia una serie di annessioni “spontanee” al regno del Piemonte da parte dei vari Stati della penisola italica, dal regno di Napoli al granducato di Toscana et cetera. Non nacque un organismo politico nuovo. In effetti era solo una dilatazione del regno sardopiemontese. Infatti Vittorio Emanuele continuò imperterrito a chiamarsi secondo; come re D'Italia invece era il primo. Lo Statuto albertino “concesso” nel 1848 da re Carlo Alberto ai sudditi sardo-piemontesi fu imposto a tutta la penisola, nella quale alcune regioni o ex Stati si trovavano in condizioni di arretratezza spaventosa e pertanto abbisognavano di altre leggi, di diversi ed idonei provvedimenti. Lo capì Carlo Cattaneo (Milano 1801 – Lugano 1869) e ne discuteva nel suo stupendo “Il Politecnico”, mensile di studi applicati alla cultura e alla prosperità sociale. Il voto era privilegio di pochi notabili. Le prime elezioni si svolsero nel 1861. Verso Torino, la prima capitale d'Italia, partirono deputati al Parlamento eletti per poche decine di voti. I senatori erano di nomina regia e il re nominava senatori del regno nobili o pochi ricchissimi borghesi. La stragrande maggioranza degli Italiani non potevano chiamarsi cittadini poiché inconsapevoli non tanto dei doveri quanto dei diritti. In particolare nel Sud due “doveri” erano insopportabili: la tassazione e la coscrizione obbligatoria. Il nuovo Stato era impopolare. Il distacco tra governati e governanti fu il prezzo più alto del modo in cui fu realizzata l'Unità d'Italia. Ancora oggi non l'abbiamo finito di pagare. La dicotomia tra l'elite e le masse avrebbe potuto essere attenuata se fosse esistito un movimento di opposizione capace di coinvolgere il malcontento esistente, di incanalarlo verso alternative realistiche. Mazzini, anziano e deluso, era sempre un esule (le condanne a morte in contumacia erano sempre valide contro l'ideologo della Repubblica). Intanto nel Mezzogiorno le plebi contadine e i pochi operai furono lasciati come prima, come sempre, all'arbitrio dei “galantuomini”. Allora proteste e rancori scoppiarono nella forma più elementare e istintiva: il “brigantaggio”, sobillato da agenti borbonici e pontifici. La stragrande maggioranza di questi “briganti” erano braccianti miserrimi resistenti alla leva, che non era obbligatoria sotto i Borboni. Facendosi bandito il contadino meridionale non intendeva tanto tornare al vecchio regime quanto manifestare la rabbia millenaria contro una ennesima invasione, quella dei Piemontesi, contro la monarchia dei Savoia che come quelle dei francesi e degli spagnoli avevano occupato, ucciso, dominato e spremuto tasse. Garibaldi al fine, fu odiato dalle masse popolari del Sud. Quando i garibaldini erano sbarcati a Marsala, l'11 maggio del 1860, man mano che avanzavano, esortavano i siciliani derelitti (i “galantuomini” si rintanavano nei loro palazzi, temendo per la vita e gli averi) a partecipare alla lotta armata contro l'esercito borbonico. Combattendo avrebbero potuto sperare non solo di cacciare l'odiato Borbone, ma di ottenere un pezzo di terra da coltivare. Così semplicemente e rusticamente la questione sociale si sposava con la questione dell'indipendenza. I n d i p e n - denza da chi?! .. Da che cosa?! .. Dalla miseria e dalla fame! Immantinente pensarono e sperarono i cafoni del Sud. Invece … quelli che erano i “galantuomini” sotto i Borboni, “galantuomini” rimasero sotto i Savoia. Le terre incolte, demaniali (del re) e padronali (dei latifondisti) non furono mai distribuite ai terroni; esse furono messe in vendita e le comprarono, a buon prezzo, coloro che avevano disponibilità di danaro, ossia nobili o ricchi borghesi. Le campagne siciliane, calabresi, pugliesi devastate dalla siccità, i loro contadini assetati di giustizia… furono elusi. Debellato il “brigantaggio”, l'ordine nazionale, formale e ottuso, aveva trionfato. Le cause per cui era scoppiato il brigantaggio rimasero lettera morta, anche se diversi parlamentari inviati nel Sud, proprio dal governo unitario, le colsero e le relazionarono per iscritto. La real politik di Cavour dopo Teano, ossia dopo l'incontro (retoricamente riferito dai libri di storia patria), durante il quale Garibaldi donò il Meridione da lui liberato a Vittorio Emanuele, concordò con i notabili locali le condizioni dell'adesione del Mezzogiorno al nuovo regno. Senza il genio di Cavour i Savoia con il cavol fiore sarebbero diventati monarchi di un regno così grande… Quei notabili ebbero la promessa che le “cose” sul piano economico-sociale sarebbero rimaste, gattopardescamente, allo status quo. Molti cafoni, capito l'inganno, Il monumento a Garibaldi di Molfetta eretto nel 1884 nell'annullo filatelico realizzato da l'Università Popolare Molfettese e dall'Istituto per la Storia del Risorgimento Una delle battaglie garibaldine LT U R A 23 15 gennaio 2008 con rabbia millenaria cominciarono ad assalire i palazzi dei signori, a occupare le terre dei padroni. Fu delegato Nino Bixio a ristabilire l'ordine: massacro di Bronte, provincia di Catania. Spettava al nuovo Parlamento dello Stato unitario emanare le leggi speciali per cominciare ad arginare miseria ed analfabetismo. Arrivati i piemontesi l'occupazione non fu solo militare ma anche burocratica e amministrativa. Miglia di piemontesi scesero nel Sud e furono dislocati nei posti chiave, dalle amministrazioni delle cittadine alle caserme con uno o due carabinieri nei paesini montani. Nel 1863 dal governo nazionale di Torino fu emanata la legge Pica, la quale tra l'altro imponeva di arrestare, anche se disarmati, gruppi di uomini che per strada chiacchierassero in numero superiore a tre. Quanti innocenti entrarono in carcere per uscire cadaveri. Nell'inverno del 1863-64 quanti bambini morirono per il freddo; mancava la legna. I boschi intorno alle miserrime abitazioni-tugurio (tassate dal governo nazionale come “case per civile abitazione”) erano stati bruciati affinché non si nascondessero i “briganti”. La giustizia fu appaltata. Gruppi di individui loschi e farabutti, vagavano per i boschi, montagne e villaggi, sequestravano beni, emettevano ordinanze, tagliavano la testa ai briganti o fatti passare per tali (era sufficiente essere sorpreso solo per un pastore o un disgraziato qualsiasi che nel bosco andava in cerca di selvaggina per sfamare se stesso e la famiglia¹) L'importante era portare una testa tagliata alla più vicina caserma dove gli ufficiali piemontesi pagavano le taglie promesse. Altre nefandezze della legge Pica sarebbe troppo lungo elencare. Garibaldi si oppose con tutte le sue forze che la legge Pica fosse applicata. Ma visto ogni tentativo inutile (sui giornali inglesi l'operato dell'esercito italiano veniva denunciato come eccidio) cercò di costituire un esercito di volontari e scese di nuovo nel Sud. Il governo nazionale inviò 20.000 soldati che accerchiarono i 3000 racimolati da Garibaldi. Il 90% di questi ultimi furono trucidati; Garibaldi, ferito, fu incarcerato. L'opinione pubblica europea aborrì tali fatti. Garibaldi fu scarcerato e riportato in catene a Caprera. Tra il 1864-65 i briganti che non erano stati uccisi o catturati tentavano di fuggire all'estero; essi rapivano e sequestravano i benestanti per farsi consegnare monete d'oro; monete d'oro da dare ad altri “signori” che promettevano documenti per espatriare. Solo monete d'oro erano accettate dall'una e dall'altra parte. Da Caltagirone partiva intanto per Torino una richiesta scritta e firmata dai proprietari terrieri nella quale costoro scongiuravano che l'istruzione obbligatoria (prime tre classi della scuola primaria) fosse estesa anche ai figli dei braccianti!!! La frase-giudizio “quel cretino di Garibaldi” pronunciata prima e dopo altre dello stesso spessore civico-culturale da un bovaro del nord va a nutrire l'amarissima consapevolezza di tragedie, di ingiustizie, di politiche sbagliate, recenti e passate, delle quali noi donne e uomini del Sud siamo oggetti e complici. Sì, complici. Perché il fatalismo in noi meridionali è stato un male atavico e colpevole. 1 Sotto il regno borbonico veniva tollerato il misero che nelle zone demaniali cacciava qualche animale selvatico. Realizzata l'unità d'Italia i padroni sparavano o facevano sparare sui disgraziati il cui assassinio non veniva punito. Quando soggiorno nel nord Italia, conoscenti “superattivi e intelligenti” mi mostrano le varie opere in atto, come nuove e ulteriori strade ferrate pronte ad accelerare movimenti di merci dal Piemonte al Veneto, al nord Europa. Allora la cretina meridionale, appassionata di Storia e nemica acerrima del fatalismo – il cestino che scende dal cielo è speranza da infingardi – sogna che le tasse pagate dai meridionali siano utilizzate, qui, nel Meridione per realizzare strutture e posti lavoro. Dall'unità in poi, quanto denaro dei “sudici” è stato investito per costruire strutture e sovrastrutture dei “nordici”. Ma i parassiti, per superficiale interessata opinione, siamo noi: l'immondizia nel napoletano è il biglietto di riconoscimento con cui ci identificano. Nel mio ultimo viaggio all'estero ero l'unica turista del Sud. Tra veneti, torinesi ed emiliani mi chiedevano ragione delle montagne di rifiuti. Alla prima ed alla seconda osservazione risposi che la situazione era in effetti tragica. Ma la terza volta, a coloro che ritornarono a parlare del Sud solo per l'immondizia risposi che più, molto di più di quelle montagne di rifiuti, puzzano l'incapacità o la mancanza di volontà di qualsiasi parte politica a risolvere il problema vergognoso nonché la complicità tra la camorra e le imprese del nord che vendono alla prima scorie tossiche, seppellite poi nelle campagne del Mezzogiorno. Che guaio combinò Garibaldi quando a Teano, andando incontro a V. Emanuele pare che abbia esclamato: “Saluto il re d'Italia!” Secondo è apogrifo del primo. I superstiti garibaldini non furono accettati nell'esercito italiano ed a ragione: disdicevano con i militi impacchettati nelle eleganti divise dell'Accademia… Non era questa la vera ragione: i garibaldini puzzavano di “anarchia” repubblicana, di riforma agraria ... Quante amarezze e politiche maligne da ricordare a coloro che non meditano la Storia per capire le radici dei problemi attuali. Ma… Testi come “I complici” (Fazi Ed. 2007) di Lirio Abbate (sotto scorta di protezione) o “Gomorra” (Mondatori Ed. 2006) di Roberto Saviano (sotto scorta di protezione) nonché gli applausi dei giovani siciliani o calabresi verso le forze dell'ordine che hanno arrestato i boss della mafia sono significative testimonianze che il nostro “grido di dolore” sta salendo di tono. Una politica che è solo far carriera, ci nausea ormai. I “bamboccioni” crescono nella totale confusione, bombardati dalle stronzate della TV. La scuola s'è persa.. I ragazzi non riconoscono autorevolezza a nessuno: conta solo ostentare, competere, avere. Bullismo e cellulari. Quali le nostre responsabilità? Un paese nel quale un vice presidente del Senato vuol far pascolare i maiali nelle moschee non è tanto diverso e lontano dalla mentalità degli integralisti islamici. Rischiamo di buttare l'acqua sporca con il bambino; rischiamo di annientare le grandi conquiste della civiltà occidentale, dal Discorso della montagna… a Montesquieu a Beccaria, alle lotte contro le dittature o le sedicenti democrazie attuali che calpestano i fondamentali diritti dei cittadini in qualsiasi zona del pianeta. Garibaldi guida le sue “camicie rosse” Garibaldi alla corte di Vittorio Emanuele II Il famoso incontro di Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele 24 15 gennaio 2008 C ultura Finalmente anche a Molfetta il prestigio di un grande artista riconosciuto in tutta Italia e all'estero: il maestro Giovanni Allevi colora il Natale molfettese con la sua grazia, la sua bravura, il suo sorriso incerto e imbarazzato, accompagnato dalla Philharmonische Camerata Berlin, una orchestra d'archi di dodici elementi, il più giovane complesso da camera esistente all'interno dell'Orchestra Filarmonica di Berlino. Ma oltre alla rilevanza nazionale dell'evento, il concerto ha riproposto l'impegno per la beneficenza che da sempre caratterizza il lavoro della fondazione “Vincenzo Maria Valente”, presieduta da Pietro Centrone, organizzatrice della serata: l'incasso è stato devoluto alla causa di Telethon da anni impegnata con i fondi per la ricerca scientifica sulle malattie genetiche e rappresentata da Pino de Candia della Bnl di Molfetta. Ma la beneficenza della serata non è stata limitata a Telethon: gli organizzatori e il sindaco Antonio Azzollini hanno destinato il fondo del buffet conclusivo della serata alle famiglie dei cinque operai della fabbrica torinese ThyssenKrupp che hanno perso la vita per un barbaro scherzo del destino, per una sicurezza sul lavoro che, nel ventunesimo secolo, cerca ancora garanzie. Nella presentazione della serata è stato anche annunciato un regalo per l'incantevole cornice del concerto: la Cattedrale di Molfetta riceverà, pare, una parte del ricavato della serata che si unirà agli ultimi finanziamenti utili per la sostituzione della pavimentazione, ultimo tassello da aggiungere al completamento del restauro. Il concerto di Natale, introdotto dal critico musicale della “Gazzetta del Mezzogiorno”, Ugo Sbisà e presentato da Mary De Gennaro viene aperto dagli archi della Philharmonische Camerata Berlin, che eseguono brani del proprio repertorio classico, da “Holberg suite” di Grieg, a Shostakovic, per poi presentare una suite per orchestra d'archi composta dal maestro Allevi, “Angelo Ribelle”. Il suono pulito dell'accordo fra violini e poi gli archetti scivolano ritmici sulle corde, lesti ed esperti, creando suggestione e poesia. Si avvicina il momento dell'ingresso del Maestro Allevi, che già si vedeva affacciarsi sull'esecuzione dei suoi componimenti, con i ricci inconfondibili che sbucavano dal retro palco e le mani che ondeggiavano a tempo. Chiamato sul palco, inondato dagli applausi, Giovanni Allevi saltella emozionato e imbarazzato, un folletto in scarpe da tennis e felpa nera che più volte si porta le mani al cuore in gesto di ringraziamento e regala sorrisi ai ragazzi delle prime file che lo salutano, a quelli del retro palco che lo vedono muoversi impacciato. Si comincia con “Come sei veramente” e “Prendimi”, due brani dedicati all'amore inclusi nel terzo album “No concept”, fra i primi brani ad averlo reso noto al grande pubblico. Tale è la maestria del suono che l'inedita sinergia con gli archi della Filarmonica di Berlino risulta essere ineccepibile: Giovanni Allevi non è solo il folletto timido o l'eterno ragazzo che si diverte scorrendo veloci le dita sul piano forte, adesso è il maturo compositore di musica classica contemporanea, l'artista completo che è tornato ad essere comunicativo con il linguaggio del pianoforte. Coi ricci che ondeggiano, il maestro esegue due altre sue composizioni: “Foglie di Beslan”, dedicata al ricordo del martirio dei bambini vittime di una delle pagine più cruente della storia occidentale, e “300 anelli”, una rivisitazione del rapporto uomo natura del ventunesimo secolo. Richiamato dagli applausi, Giovanni Allevi ringrazia con la voce tremante, “Mi è sembrato di sentire un bis” e regala altri due pezzi, per un finale in crescendo con una nuova esecuzione di “Prendimi” e “Jazzmatic”. E' il punto di partenza del rinascimento culturale per Molfetta, rinascimento che si augurano il sindaco Antonio Azzollini, in prima fila ad applaudire i musicisti, Piero Centrone, presidente della Fondazione Valente, e lo stesso Giovanni Allevi che prende velocemente la parola ringraziando il pubblico generoso idealmente stretto a lui. Per chi si ferma ad aspettarlo fuori dalla sagrestia della Cattedrale c'è ancora un'altra sorpresa: dopo il doveroso saluto delle autorità, Giovanni Allevi abbraccia il suo pubblico. Ragazzi con spartito da far autografare, flash in azione, abbracci e conversazioni genuine e surreali; c'è chi gli racconta della propria vita, di come si è avvicinato alle sue composizioni, chi chiede timidamente l'autografo per fratello e fidanzata e chi gli dà la mano per salutarlo in un'occasione irripetibile. Il maestro Allevi chiede a tutti “Chiamatemi Giovanni!”, e racconta le sue di storie personali, ringrazia incessantemente, si presta a tutte le foto di rito e scherza con chi si mostra ancor più timido di lui, firma autografi e chiede, entusiasta: “te lo disegno il pupazzetto?” Ed ecco un moltiplicarsi di dediche personali, di nasoni, grandi occhi a palla e gli inconfondibili ricci neri, ritorna il folletto, il ragazzo non ancora quarantenne sinceramente stupito dal suo stesso successo. Allevi e Philharmonische Camerata Berlin, straordinario evento del Natale molfettese di Alessia
Autore: Gianni Sallustio
Nominativo  
Email  
Messaggio  
Non verranno pubblicati commenti che:
  • Contengono offese di qualunque tipo
  • Sono contrari alle norme imperative dell’ordine pubblico e del buon costume
  • Contengono affermazioni non provate e/o non provabili e pertanto inattendibili
  • Contengono messaggi non pertinenti all’articolo al quale si riferiscono
  • Contengono messaggi pubblicitari
""
Quindici OnLine - Tutti i diritti riservati. Copyright © 1997 - 2025
Editore Associazione Culturale "Via Piazza" - Viale Pio XI, 11/A5 - 70056 Molfetta (BA) - P.IVA 04710470727 - ISSN 2612-758X
powered by PC Planet