Pentagramma del vento di Dino Claudio
Edita dalle Edizioni Lepisma, la silloge Pentagramma del vento di Dino Claudio, corredata di scritti critici di Giuseppe Farinelli, Donato Valli e Bruno Rossi (autore di una monografia sul poeta molfettese dal titolo “Dino Claudio. Il dolore e la luce”), si propone di ripubblicare liriche delle precedenti raccolte dello scrittore, tra cui I sentieri del vento e Il bosco illuminato. Un florilegio, dunque, dell'esperienza poetica del Claudio, che sin dalle sue prime prove ha destato l'attenzione di intellettuali del calibro di Manacorda, Barberi Squarotti ed Emerico Giachery, in un moto (cito Rossi) di “classicismo trasgressivo”, capace di restituire linfa vitale all'anima elladica che permea la nostra cultura, senza obliterare le acquisizioni spirituali della poesia del primo Novecento. Le immagini di una Puglia amata, eppure amara, si susseguono in un incalzante intarsio di miti che non è classicismo oleografico ma si fa, come segnala Ave Stella, classicità allo stato puro “entro una rarefatta luminosa atmosfera”. Il poeta pennella figure come Annina, che non ha più aspettativa di “pascoli verdi”e trascina una vita non vita con la sola voce della solitudine a picchiare, col vento, alla sua “porta sgangherata”. In una confusione di nubi e di brezze dà voce al peana di un fischio adolescente e a quell'afrore in cui “canta il cosmico ardore dell'Eros”. Contempla la desolazione frutto di un “Esodo”, di cui muti testimoni sono un cane – richiamato in Ringkomposition a conclusione del componimento – e di una casa che sussulta nel vento; nella rievocazione di una festa di canzoni invano agognata, effigia in pochi tratti un delizioso figurino dal “collo lungo / come un quadro di Modigliani” e coi “lucciconi” agli occhi. “Miniera”, che trae spunto dagli eventi di Marcinelle, a metà tra epos ed elegia, come segnalava Rossi, ci pare configurarsi come una sorta di umanissima lauda, che dalla preghiera del minatore muove alla preghiera-lamento della madre. In un'aura che sembra spiritualmente collocarsi tra la jacoponiana “Donna del Paradiso” e le – successive – “Tre madri” di De André, acquisisce vigore un eroico dramma popolare dai toni scuri, suggellati dalla scelta, come Leitmotiv, del canto-pianto della capinera, l'uccello dal ciuffo nero. Di estrema efficacia l'icona della “Madonna disegnata col carbone”, condannata a una tragica inazione; il contrasto tra gli occhi azzurri e la faccia nera di un Tony inghiottito dal boato distruttore; le ultime parole di un Guido morente, che tende la mano all'amico, per non spegnersi totalmente solo nel gelo della morte. Si avverte qua e là un processo di cristificazione dell'uomo sofferente, processo ricorrente nella produzione del Claudio, percorsa da una profonda spiritualità su cui molto si è detto e che a noi sembrerebbe tradursi in una sorta di francescanesimo panico, che rende lo scrittore fratello delle cose e degli uomini. Specie di quei poeti crocifissi e vinti dalla vita, che Claudio desidera accogliere in un'oasi di canto, unica forma di riscatto dalla desolazione del presente. La “Fine di un'amicizia” risuona come una sorta di canzoniere del silenzio. A tratti il silenzio si staglia “azzurro” contro parole trite e inutili. Altre volte contribuisce ad erigere muri e separare animi; nell'enigmatica poesia che dà il titolo alla sezione scandisce l'insorgere d'un senso di estraneità tra un “Tu” macchiatosi di un delitto che l'ha reso adulto e capace di “cogliere il proprio destino” e un io cui è interdetta quest'ultima possibilità, per il suo essere prigioniero di una purezza-fanciullezza, forse salvifica, forse no. Potremmo addentrarci ancora nell'esame di singole liriche o sezioni, ma, per necessità di brevità, preferiamo avanzare alcune considerazioni di natura più generica. È a nostro avviso una poesia d'arsura quella di Dino Claudio; si avverte una sorta di afa esistenziale nei versi di uno scrittore che mostra di preferire la stagione delle foglie secche a un'estate simbolo di stasi e morte. L'angoscia di mille perché senza risposta è lenita dalla capacità, tutta lirica, di tradurre il dolore in visioni di delicata bellezza. La bellezza triste di un Orione colpevole, eppure tanto umano; quella di un bronzeo “fanciullo occhidimare”, inutile in un mondo che romba di motori – dimentico, nella sua indifferenza, della lontana età degli eroi –, ma in qualche modo salvifica se capace d'innamorare un Eolo-vento altrove ululante, e d'indurlo ad usarle gentilezza e a “far piano”. Se la Luna appare simile al calviniano orizzonte vuoto del “Castello dei destini incrociati”, desolata meta di ogni umano viaggio, alle nuvole sembrerebbe riservato il destino di errore – un errare privo di motivazioni profonde – adombrato dal Leopardi per la Luna stessa, seppure con differenti caratteristiche, nel suo “Canto notturno”. Alla lirica di Dino Claudio non mancano però angeli della visitazione: la Madonna del Beato Angelico; la figura materna, nume tutelare – cui è dedicata la silloge – che interviene, metamorfosandosi, a illuminare il bosco; le alcioni che, in un bellissimo congedo forse allusivo ai celeberrimi versi di un Alcmane che si sognava cerilo, conducono il poeta alle dimore celesti, sul filo delle acque del mare calmo.
Autore: Gianni Antonio Palumbo