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Paolo Cucchiarelli, giornalista Ansa, al Ghigno di Molfetta per presentare “L’ultima notte di Aldo Moro”
Calvani e Cucchiarelli
04 novembre 2018

 MOLFETTA - A raccontare l’irraccontabile sul caso Moro, sul quale nonostante otto indagini continua a non esserci chiarezza, è stato il giornalista Ansa Paolo Cucchiarelli, lieto di aver presentato a Molfetta il suo libro “L’ultima notte di Aldo Moro”.

La stagione autunnale della libreria “Il Ghigno” è ricca di appuntamenti ma soprattutto di interventi, come quello che ha visto il confronto dell’autore, introdotto dalla prof.ssa Isa de Marco, con l’avv. Giulio Calvani.

«La vostra storia è cominciata quando l’Italia si è piegata all’omicidio di Aldo Moro» ha dichiarato il giornalista, precisando così il motivo per cui ancora oggi aleggia il fantasma di Moro, l’uomo ucciso nelle stesse vesti in cui era stato rapito, ossia in quelle di Presidente della DC, perché aveva capito troppe cose. O almeno è questo ciò che emerge dalle indagini effettuate da Cucchiarelli, la cui abilità di giornalista investigativo e il cui stile tipico delle spy story, secondo Calvani, raggiungono il culmine nell’ultima pubblicazione. La stessa in cui la vicenda della morte di Aldo Moro, avvenuta il 9 maggio del 1978 in una Renault rossa R4, è descritta nei minimi dettagli, proprio grazie ai contatti del giornalista con il perito che ha effettuato l’autopsia del cadavere.

«Va sottolineato che il corpo di Moro era privo di adrenalina, non manifestava alcun sintomo di paura. I vestiti del Presidente della DC non portavano segni di sudore. Ciò non può che voler dire che Aldo Moro sia stato ucciso nel momento in cui pensava che tutto ruotasse per il bene, possedendo la matematica certezza della libertà».

Una matematica certezza trasformatasi in un’atroce vicenda, ricostruita dal giornalista, con il coinvolgimento del pubblico, nella libreria molfettese. 

Disposte quattro sedie, corrispondenti ai quattro sedili della Renault R4, due spettatori hanno interpretato rispettivamente Aldo Moro e il suo uccisore delle Brigate Rosse, che si è servito di una pistola giocattolo fornitagli dall’autore.

I primi quattro colpi dritti al cuore, dalla parte sinistra, il sangue arriva a sporcare il finestrino; Moro inarca la schiena, nel tentativo di fuggire, ma altri quattro colpi glielo impediscono. Il parasole si macchia, i bossoli sono stati ritrovati nella zona anteriore dell’autovettura, quattro colpi sono stati rinvenuti in un altro luogo: ma Aldo Moro è stato ritrovato nel portabagagli secondo la versione ufficiale, quella fornita per non spiegare le circostanze da occultare, ossia il fatto che il corpo del Presidente della DC sia stato spostato mentre era ancora vivo. Sono queste le dinamiche irraccontabili poiché farebbero nascere dubbi, perplessità, domande scomode. Come la questione portata alla luce da un astante: perché la strategia di colpire con un rapimento per poi affondare con l’uccisione piuttosto che un assassinio diretto?

La risposta di Cucchiarelli è stata decisa nel dichiarare che il rapimento è stata occasione per fare azione e per distruggere, in maniera graduale ma efficace, il messaggio politico di Moro, il quale, nello Stato per cui si è battuto a lungo sostenendone l’autonomia monetaria ed energetica, non trova ancora giustizia.

Duri i toni con cui si è espresso il giornalista Ansa, che non esclude ancora l’ipotesi che Moro sia stato ucciso per mancato cambio di maggioranza politica, ovvero per una situazione di stallo, pur con tutto l’addestramento militare dell’omicida, che è stato in grado di indirizzare i colpi. Gli stessi colpi giunti probabilmente perché l’esponente delle Brigate Rosse accanto al conducente della Renault non aveva altra scelta che sparare, non essendosi presentata la controparte. Gli stessi colpi che, ora come allora, fanno tremare uno Stato consapevole della situazione di Moro, ma privo della forza politica necessaria per liberarlo dalla prigionia “mobile” che portava il Presidente della DC a vagare da un luogo all’altro a seconda della convenienza di chi lo aveva in pugno dal 16 marzo 1978.

Ma ad essere nella prigione della menzogna nel 2018 è tutta l’Italia, ancora all’oscuro su una vicenda che non abbandonerà mai lo spirito giornalistico- investigativo di Paolo Cucchiarelli e di quanti, come lui, vorranno intraprendere il sentiero della giustizia per recuperare la verità, l’unica chiave grazie alla quale la prigione non sarà più tale. 

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