Palavras
Pregevole e interessante l’antologia appena edita dall’attivissima casa editrice barese Wip (diretta da Stefano Ruocco), “Palavras”. Pubblicata nell’ambito della collana di narrativa e poesia “Spazio/Tempo”, curata dal critico e scrittore Alessandro Lattarulo, la silloge raccoglie quattro solide voci femminili del panorama pugliese: la molfettese Mariella Binetti, Letizia Cobaltini, Dora Luiso e Roberta Monaco. L’opera reca in copertina la riproduzione di un olio su tela di Corrado Veneziano ed è stata prefazionata da Enrica Simonetti. Come ha ben evidenziato Alessandro Lattarulo, “Palavras” è “il tentativo di riaffermare il potere taumaturgico della parola, di quella poetica in primo luogo”. Fitta è costante appare infatti la meditazione metapoetica. Essa emerge, per esempio, nei versi sinuosi e raffinati di Mariella Binetti, in cui affiora il carattere ambiguo del dono della poesia, che - come l’araba fenice - rinasce anche quando si vorrebbe rinunciare a suggellare su carta “brandelli di pensieri”. Poi basta una finestra da cui trapela una luce nel cuore della sera, per riattivare il dialogo con sé stessi e la propria anima, poi fiorito tra le pieghe di nuovi scritti. Nelle liriche della Binetti tocchi impressionistici, che delineano scenari notturni, con contrappunti di lampioni e asfalto, si alternano a sortite tra i valloni del ricordo, da cui l’io lirico emerge con il dolore pulsante per l’imprimersi nell’anima della consapevolezza di un’assenza. Eppure quei ricordi sono “pietre di giada” da inanellare con cura, nell’impervio percorso dello spirito che porta ad astrarsi dall’umano consesso e a ricercare una terra d’elezione. Talora la poesia si fa grido sommesso, quasi rauco, per vite femminili strozzate da società che conculcano i più elementari diritti umani; in altri casi, lo sdegno esorbita, declinandosi in un crescendo di metafore, sino all’esplosione. Letizia Cobaltini muove dal canto di un Sud piagato dalla calura, e soprattutto da un atavico retaggio di soprusi e angherie. A quella terra disfatta dall’ingiustizia, l’io lirico si avverte legato a doppio filo, in una sorta di intimo rispecchiamento. La poesia della Cobaltini è pregna di autoironia e si gioca su cromie che spaziano dall’amaranto all’oltremare. Molteplici sono le tematiche affrontate, tra cui l’inautenticità dei rapporti umani, improntati a un’inutile teatralità, e l’incomunicabilità, di cui l’icona di Babele assurge a perenne metafora. Spesso, l’attitudine meditativa si traduce nel sapore gnomico di versi come quelli della bella “Passerà il tempo”, una riflessione sulle ferite che lo scorrere degli anni infligge alle umane vite. In altri casi, è l’arte figurativa a fungere da ispirazione: nell’”Attesa”, in ossequio al principio dell’ut pictura poësis, l’autrice arabesca su un’opera di Giovanni Giani, con efficacia di tocchi e di tono. Il senso di distonia rispetto a una presente dismorfo emerge, enfatizzato dall’allure allitterante, nel “Peso”, in cui il desiderio di sfidare la gravità si fa ansia di cielo e di volo. Dora Luiso si conferma voce di elevata intensità nel panorama letterario pugliese. La sua poesia ausculta i pentrali dello spirito e ne riemerge, con versi a volte petrosi, come nell’incisiva “Cassandra”, tutta giocata sul filo di immagini brulicanti e perturbanti, evocate dall’io poetante nell’intessere i suoi pensieri allucinati di “impotente” profetessa di sventura. Ora il canto si fa epigrammatico, non di rado ricco di implicazioni filosofiche, ora si eleva assumendo cadenze da struggente epicedio, mestamente innalzato alla sacralità degli affetti (“Funerale”, dall’explicit percorso da sommessa commozione). In alcuni componimenti, l’io lirico intesse un dialogo con un interlocutore di cui lamenta la bruciante assenza. Così, se da un lato può arrivare a invocare, come Saffo, la morte (“Se fossi morta allora / tra il tuo petto e le tue braccia / non avrei saputo nulla / delle tue bugie codarde”), declinata nelle dolci piroette di un valzer danzato con la figura paterna, dall’altro ingaggia un duello con la “Nera Signora”, che si conclude con efficacia notevole: “L’ho cacciata lontana / perché non mi calpesti / più l’ombra / anche se verrà ancora / a falciare i tronchi secchati // Ma fino a quel buio / ch’io viva”. Roberta Monaco ricostruisce una sorta di viaggio nel tunnel della malattia, in cui l’uomo avverte un profondo senso di smarrimento e rischia la disidentificazione, nello spersonalizzante perdersi in meati di macchinari e ambienti asettici. Dalla caduta alla RI VINCI TA, il percorso diviene quasi ascesi, in cui un ruolo non secondario è rivestito da quella parola, che diviene “nutrimento dell’anima inquieta”. Parola che, con l’attitudine tipica della linguista, l’autrice disseziona, riconducendosi alle etimologie e giocando su agglutinazioni e scomposizioni di termini, come nel caso di “Tu more”, ma anche di “De-menti digitali”. Leitmotiv l’idea che l’amore debba riscattarci, in un mondo che rischia l’implosione; che la parola debba riacquistare il suo valore di autenticità, sottratta al logorio che ne fa smarrire il senso profondo. Solo così l’Amazzone, che si rifugia in castelli di traduzioni in cui la parola è cittadella e cosmo al contempo, potrà restituire senso al reale e inoltrarsi nel suo Nuovo Mondo.
Autore: Gianni Antonio Palumbo