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Molfetta, Quinto rapporto sulle povertà 2010: la crisi ha colpito i ceti medi borghesi
05 novembre 2011

MOLFETTA - È sempre la disoccupazione, dunque problemi di occupazione lavoro ed economici, alla base della povertà locale. Dai dati contenuti nel Quinto rapporto sulle povertà 2010 quasi il 45% di coloro che si sono rivolti ai Centri di ascolto è disoccupato, mentre il 25% non trova lavoro. Per questo motivo, i bisogni individuati sono maggiormente problemi di lavoro (26%) e disoccupazione (30%), cui si aggiungono problemi familiari (8%) e abitativi (12%).
Costanti rispetto al 2010 le richieste di beni e servizi (70%), di sussidi economici (14%) e di lavoro (12%).

Rispetto al 2009, maggiori sono i centri coinvolti nella Diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi (da 31 a 37), permettendo una lettura più accurata del fenomeno socio-economico della povertà.
Maggiore anche l’utenza (da 840 a 970), soprattutto donne (65%), che continuano a essere la figura di riferimento in famiglia e portavoce dei suoi problemi. Ridotta la percentuale degli uomini (33%), aumentano i celibi (22% rispetto al 20%), i vedovi (11% rispetto al 10%) e le persone sole (dal 12% al 15%), mentre si mantengono stabili le percentuali per coniugati (47%) e dei separati (9%).

Aumentano gli stranieri, soprattutto rumeni (38%), marocchini (26%) e albanesi (11%), ma sono i cittadini italiani a rivolgersi in modo continuo ai CdA (68%), espressione di una crisi economica che sta mangiando i ceti appartenenti alla classe media borghese, a dispetto di quanto i mass media filtrano da Roma e dalle parole del premier Berlusconi.
La crisi finanziaria esiste e ne stiamo subendo le pesanti conseguenze.

© Riproduzione riservata

Autore: Adelaide Altamura
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Che cosa prova la gente a diventare collettivamente più povera? Non parlo dei poveri che il fisco risparmia e neppure di quelli per i quali 200 milioni di euro equivalgono ai nostri 200 euro, ma di quella classe media che, essendo diventata negli ultimi decenni la classe di tutti, ha finito per dissolvere perfino le rivendicazioni di classe, sostituendole con le rivendicazioni di categorie. Si può sempre dire che un po' di povertà non fa male: contiene i costumi che abbiamo spinto un po' all'eccesso, spopola i ristoranti dove la troppa gente non si riesce più a scambiar parola, riduce il traffico che ha trasformato le nostre città in un unico parcheggio, allenta la morsa dei weekend forzati, assottiglia, nelle agenzie di viaggio, le folle di quanti pensano che basti cambiar cielo per cambiar animo. Le discoteche chiuderanno qualche ora prima, alcuni giovani vedranno ridotte le loro chance di finire direttamente al cimitero, chance che purtroppo aumenteranno per quanti non riusciranno a stare al passo del costo dei farmaci, o più semplicemente della qualità degli alimenti, a cui è da addebitare quel prolungamento della vecchiaia che in Occidente siamo soliti chiamare allungamento della vita. Eppure, nonostante questi vantaggi secondari, un senso di inquietudine pervade sia i singoli individui sia le imprese che si sentono impotenti a modificare l'andamento dell'economia, la quale, per effetto della globalizzazione e forse della supremazia dell'aspetto finanziario (e virtuale) su quello produttivo (reale), sembra sia divenuta qualcosa di trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto, i cui disegni nessuno davvero conosce. Tutto ciò comporta, come dicono gli economisti, un rallentamento della crescita, quando non addirittura una crescita zero o addirittura sotto zero. E qui siamo a quella parola subdola, “crescita”, che gli economisti applicano sia ai paesi diseredati, che raccolgono tra l'altro i quattro quinti dell'umanità, sia ai paesi già sviluppati che, ciononostante “devono crescere”. Fin dove? E a spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui l'economia tace perché il problema non è di sua competenza, e con l'economia tacciono anche le voci degli uomini che alle leggi dell'economia si devono piegare. Ora che il capitalismo, dopo l'omologazione e l'assimilazione delle regioni socialiste, è diventato globale, vediamo confermate le previsioni di Marx che oggi sembrano sbagliate solo per difetto. Infatti, a livello di nazioni, la mondializzazione del mercato dei capitali, oggi dispiegata in ogni parte della terra a partire dalla deregulation iniziata negli anni novanta, ha portato il colpo decisivo al già tramontante potere degli Stati e alla loro possibilità di influenzare con gli strumenti della politica il corso degli avvenimenti. (Umberto Galimberti – I miti del nostro tempo)


Di fronte a questo scenario Madera scrive che: “Dopo aver vinto la guerra dei settant'anni contro il comunismo, il capitalismo comincia a mostrare il suo vero volto, che non è proprio quello del progresso che aveva scritto sulle bandiere. Infatti, se questi sono i dati e queste considerazioni hanno un loro senso e una loro plausibilità, non sembra remoto “lo spettro di un'ingloriosa soluzione finale dell'esperimento umano”, sia per quanti non hanno di che vivere, sia per i ben pasciuti a cui non si riconosce altra dignità se non quella di funzionari a diversi livelli del capitale. Per cui è difficile non concordare con Madera là dove scrive che: “I cataclismi umani che il Novecento ha metabolizzato nelle guerre mondiali fra le potenze, e nelle guerre coloniali contro le potenze, alla fine del secolo ancora ribollono nelle falde sommerse di una terra regolata dai soli criteri dell'accumulazione infinita e della competizione sfrenata, il cui limite è solo artificio e tregua di guerra, nella più totale assenza di rispetto per uomini e natura.” Essendo il mercato diventato globale, e avendo occupato tutti i luoghi della terra, a contrastarlo, secondo Romano Madera, non resta che u-topia, ossia quel non-luogo dove si rifugiano o sono stati confinati, spinti sia da destra sia da sinistra, personaggi, progetti, idee, proposte, finiti nell'unico posto al mondo che accetta tutti i detriti della storia. Da questo non-luogo non possono nascere, oggi, organizzazioni di contrasto, strategie di riscatto o rivoluzioni liberatorie, ma solo una chiamata che viene dal futuro, dalle sorti future della terra e dell'uomo, simile alla chiamata che un giorno mosse Abramo a lasciare la sua casa, la sua terra, il suo popolo, per diventare il padre di una popolazione utopica, all'epoca senza luogo, come senza luogo è già il nostro abitare sulla terra. Infatti l'unica civiltà che si va diffondendo, a scapito di tutte le altre possibili espressioni tradizionali e non, è la civiltà del profitto, che oggi appare come l'unico generatore simbolico dell'ordine che deve regnare sulla terra e della spartizione dei ruoli che gli uomini, sia quelli affamati sia quelli sazi, devono rigorosamente assumere per avere diritto alla cittadinanza. – ( Umberto Galimberti – I miti del nostro tempo. -)

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