Matteo Masiello, tra sogno e realtà
Un'antologica in omaggio a Michele Campione, giornalista e critico d'arte deceduto in luglio, per celebrare il ritorno a Molfetta di Matteo Masiello, a distanza di sei anni dall'esposizione alla Sala dei Templari.
Non è facile collocare l'artista in una corrente o in un periodo, e non ci piace definirlo postmoderno, quasi un tentativo di inserire Masiello nel sistema, pensando al ritorno al figurativismo dopo la sbornia di avanguardie e di non figurazione che ha attraversato il Novecento.
È abbastanza immediato chiamare in causa Hieronimus Bosch, del quale è chiara la ripresa di composizioni molto affollate e distorte, visioni quasi oniriche e un gusto per il mostruoso, inteso e come qualcosa di pauroso e come un non so che di inusuale.
L'uomo di Masiello è sempre in ricerca, in pensiero, sospeso sul filo di un giudizio tra terra e cielo, e che si specchia nella religione in modo drammatico. Tele come la “Crocifissione”, o il “Trasporto”, ci portano alla mente i gruppi di dolenti medievali, con tensioni tragiche degne del gusto romanico.
In particolare, il “Trasporto” è come se ci riconsegnasse un Bramantino del Duemila, con questa minuzia per il particolare e le visioni di città sullo sfondo. L'artista realizza anche storie di santi, e le “Storie di San Nicola” ricordano certamente i grandi cicli di affreschi medievali.
Ma la passione per l'irrealtà è anche novecentesca, surrealista, simbolista e a volte quasi espressionista.
C'è la metafisica di De Chirico e Carrà in opere come “Non si saprà”, l'astrattismo musicale di Kandiskij ne “La cosmogonia di Asimov”, un ritorno alla ritrattistica di Van Gogh in “Ricordo di mia madre” o “Autoritratto a quarant'anni”.
La sensazione è di opere in eterno fermento, quasi in gioco, come “ludus” è l'arte per l'autore. Esseri che sbucano da cavità nascoste, fratture sul pavimento, creature deformi o scheletri, tutto è in divenire, come “Il passaggio”, “La ricerca infinita”.
Michele Bruno