Correva l’anno 1978 quando il prof. Sergio Camporeale, mio caro sodale nel Gruppo per le tradizioni popolari “La Berzeffa”, mi portò la registrazione di una satira politica in vernacolo molfettese. Allora eravamo impegnati con altri amici in spettacoli di Folk revival e nella stesura di un primo saggio delle nostre ricerche, Il canto dell’Ascensione e una ninna-nanna molfettese, che nel 1979 feci stampare dall’indimenticato tipografo Alfonso Mezzina. La poesiola dialettale fu recitata al mio amico da un’arzilla vecchietta, Antonia Minervini, che in quell’anno aveva all’incirca 81 anni e diceva di averla imparata a memoria da bambina. Quindi la satira doveva essere dei primi anni del Novecento. La trascrissi subito, la tradussi in italiano e la misi tra le altre schede del nostro lavoro di recupero delle tradizioni orali molfettesi. La simpatica poesia, formata da tre quartine di ottonari rimati, come documento popolareggiante di un costume politico tramontato, merita di essere portata alla luce. Eccone il testo e la traduzione: A rë mmégghjë n’êltê nòëvë. Céd è statë e nên è statë? U onn’êcchjàtë u deputatë, u onn’êcchjàtë, è statë quagghjatë. Don Lorèëtë, pigghjë la ssciàssë, zùmbë a Bbàrë a ffà u smêrgiàssë. Pó che la ssciàssë e cu flëbbòënë vàuuë aspìëttë a la staziòënë e dingìddërë a Vvìtë Nëcòëlë ca Mlëfèttë nê u vòëlë: u onn’êcchjàtë u deputatë, u onn’êcchjàtë, è statë quagghjatë. Sul più bello un’altra nuova. Cosa è stato e non è stato? L’han trovato il deputato, l’han trovato, è stato quagliato. Don Loreto, prendi la marsina, salta a Bari a fare il bravaccio. Poi con la marsina e col cilindro va’ ad aspettarlo alla stazione e diglielo a Vito Nicola che Molfetta non lo vuole: l’han trovato il deputato, l’han trovato, è stato quagliato. Nel trascrivere la satira, andai in sollùcchero per due arcaismi dialettali: ssciàssë “abito a coda”, “frac”, bel gallicismo dal francese (habit de) chasse ‘(abito da) caccia’, che in origine era stata la giubba dei cacciatori accompagnatori di re, principi e grandi signori, e flëbbòënë, alla lettera ‘felpone’ per “cappellone di felpa”, “gibus”, “tuba”. Ma chi erano don Loreto e Vito Nicola? Occorreva far ricerche sulle elezioni politiche del primissimo Novecento. Essendo però impegnato in altre faccende, lasciai perdere e le strofette finirono nel dimenticatoio. Alcuni anni fa, tuttavia, mentre lavoravo al libro W Salvemini. Le elezioni politiche del 1913 nei collegi di Molfetta e Bitonto, riaffiorò tra le mie carte la scheda con la satira e, forte di una preparazione più che trentennale, individuai subito i due personaggi politici. Erano Loreto Tortora e Vito Nicola Di Tullio. Il cav. Tortora, possidente morto ultranovantenne nel 1916, era uno dei capi del partito monarchico di Molfetta, eletto più volte consigliere provinciale a partire dal 1889 e vicino agli ambienti vescovili, in quanto negli anni Novanta dell’Ottocento era stato presidente dell’Opera pia Monte di Pietà, Spedale e Confidenze. L’avvocato penalista Di Tullio, vissuto tra il 1849 e il 1913, era stato sindaco di Bari dal 23 gennaio al 27 agosto 1902 col favore dell’influente cognato Vito Nicola De Nicolò, sagace capo del partito moderato barese e deputato di destra, ma con aperture democratiche, del collegio uninominale di Bari fra il 1892 e il 1902. Di Tullio a sua volta era stato deputato conservatore del collegio di Bari dal 6 marzo 1903 al 18 ottobre 1904 col doppio cognome Di Tullio-De Nicolò, in omaggio al cognato. La satira dialettale attaccava lui e il leader monarchico molfettese, colpevole di averlo invitato a candidarsi per il collegio di Molfetta-Bisceglie. Il deputato uscente del collegio di Molfetta era l’avvocato tranese Pietro Pansini, libero docente di diritto e procedura penale all’Università di Napoli. Era stato eletto per la prima volta nel 1890 come radicale postosi in cordata nientemeno che con Giovanni Bovio e Matteo Renato Imbriani nel collegio Bari II, che includeva anche Molfetta, e, rieletto, nel 1897 era passato nel gruppo parlamentare repubblicano di Bovio. Tra i repubblicani della vecchia guardia, sostenitori di Pansini legati all’ex sindaco maneggione Mauro De Nichilo, e un drappello di socialisti, radicali e repubblicani incorrotti, come Francesco Picca, non correva buon sangue. Picca, grande amico di Gaetano Salvemini e integerrimo sindaco riformista tra il 1902 e il 1904, inizialmente avallato dai Partiti popolari (repubblicani, radicali e socialisti), era stato fatto cadere con le elezioni amministrative parziali del 17 luglio 1904, che avevano portato al predominio in Consiglio comunale i veterorepubblicani pansiniani, appoggiati dai clericali. Di conseguenza Picca il 21 luglio si era dimesso da sindaco di Molfetta e da consigliere provinciale, e il 28 agosto, con la lettera Ai Pansiniani del Circolo M. R. Imbriani di Molfetta, apparsa sul settimanale socialista barese La Ragione, aveva smontato gli addebiti menzogneri rivolti dai sedicenti repubblicani di Pansini e De Nichilo alla Giunta municipale dimessasi con lui. Erano tempi economicamente e socialmente difficili in Italia, scanditi da una dura repressione delle dimostrazioni popolari nel Mezzogiorno. A Cerignola il 17 maggio la polizia provocò 3 morti e 14 feriti durante una protesta popolare contro il fiscalismo e il malgoverno amministrativo. A Buggerru (Cagliari) il 4 settembre i minatori in sciopero furono attaccati da due compagnie di soldati, che fecero fuoco, uccidendone 3 e ferendone una ventina. A Castelluzzo (Trapani) il 14 settembre i carabinieri intervennero contro una manifestazione di solidarietà per un socialista arrestato, ammazzando 2 contadini e ferendone una decina. Per protestare contro la politica governativa di Giolitti, allora, l’ala estremista socialista promosse il 16 settembre uno sciopero generale, che da Milano si estese rapidamente a Genova, Torino e Parma e poi ad Alessandria, Bologna, Ancona, Roma, all’Emilia e ad alcune zone della Puglia, durando perlopiù fino al 21 settembre. Era il primo grande sciopero generale italiano. Il 22 settembre con un ordine del giorno i deputati dell’Estrema Sinistra condannarono le feroci e sistematiche repressioni praticate dal ministero e chiesero la convocazione anticipata della sessione parlamentare. Contro tale richiesta e contro le agitazioni massimaliste, Giolitti fece sciogliere da Vittorio Emanuele III il 18 ottobre la Camera e indire le elezioni politiche per il 6 e 13 novembre 1904. A Molfetta i monarchicoliberali del Circolo “Cavour”, popolarmente detto Cavone, offrirono il collegio a Vito Nicola Di Tullio e, benché inizialmente l’onorevole avesse dichiarato la sua indisponibilità, il 23 ottobre proclamarono ufficialmente la candidatura in un affollato comizio. La sera dello stesso giorno, però, a Bari nel Circolo “Margherita” l’avvocato civilista Giuseppe Re David, sindaco uscente di Bari, in compagnia del cav. uff. Vito Di Cagno e del cav. Nicola Iannuzzi, proclamò la candidatura dell’amico Di Tullio per il collegio di Bari. Per troncare l’equivoco, il 24 ottobre Di Tullio si recò nello stesso circolo barese e declinò la candidatura offertagli per Bari, chiarendo di aver scelto la lotta nel collegio di Molfetta. Poi partì per Roma. Sotto la stessa data a Bari scrisse una lettera aperta al comm. Re David, ringraziandolo con gli altri amici per l’affetto dimostratogli e spiegandogli che la vita dei partiti in Bari era diventata insostenibile, forse perché alle finalità del pubblico bene si era sostituita «la forma pericolosa dell’acredine personale» e i nomi dei candidati apparivano usurati «dagli attriti incessanti». In realtà è più probabile che fosse impensierito dalla solida candidatura di Gian Domenico Petroni su Bari, ex deputato della sinistra zanardelliana, che aveva più chances rispetto al socialista Enrico Ferri, cui si aggiunse dal 29 ottobre il danaroso avvocato liberale Michelangelo Buonvino. I tentennamenti e i colpi di scena ditulliani terminarono con un telegramma di adesione inviato da Roma al Comitato monarchico di Molfetta. A loro volta gli pseudo-repubblicani e massoni del Circolo “Imbriani” di Molfetta, rimandata al dopo-elezioni la scelta del sindaco tra i confliggenti Mauro De Nichilo e Vito Balacco, confermarono pubblicamente il 23 ottobre il loro sostegno a Pietro Pansini, che l’Avanti! dello stesso giorno definiva «repubblicano addomesticato». Poiché Gaetano Salvemini si era dichiarato assolutamente indisponibile a candidarsi e aveva consigliato un’azione di disturbo, i socialisti molfettesi e biscegliesi ripiegarono in gran parte su una candidatura di partito nel nome dell’on. Ettore Ciccotti, deputato uscente del collegio di Vicaria di Napoli, pregato da Salvemini di lasciarsi portare candidato anche a Molfetta. La lotta elettorale era resa più incerta dalla spaccatura dei Partiti popolari, scissi fra l’amministrazione vetero-repubblicana clientelisticamente aggrappata all’on. Pansini e il gruppo di Picca, inutilmente invitato la sera del 21 ottobre a un tentativo di conciliazione con i vecchi alleati. Il gruppo di Picca era formato da uomini come Pasquale Antonio Messina, Mauro Magrone, Vincenzo Giancaspro e Mauro Annese, frequentatori del Circolo “Ferrucci” e sostenitori in Consiglio comunale, prima delle dimissioni, del tetragono sindaco Picca, soprannominato Chiancone. Essi erano propensi alla libertà d’azione, cioè a scegliere secondo coscienza se votare scheda bianca, astenersi o votare Ciccotti, escludendo quindi il voto a Pansini o a Di Tullio. D’altro canto molti elettori della caduta amministrazione Picca affermavano che per protesta avrebbero votato proprio Di Tullio, compresi non pochi operai della Lega pastai, alcuni dei quali invece propendevano per Ciccotti. A smentire d’altra parte che Salvemini si fosse candidato, come propalavano alcuni giornali nazionali, aveva provveduto il 21 ottobre Alessandro Guidati con un dispaccio pubblicato il 22 sull’Avanti!: «Non è vero ciò che stampano la Tribuna, il Mattino ed il Pungolo affermanti la candidatura di Salvemini a Molfetta. I falsi informatori sono asserviti al partito Pansini». Il 27 ottobre a Bisceglie giunse un commissario prefettizio per un’inchiesta e il 29 fece sciogliere il Consiglio comunale favorevole a Pansini. Si vociferava che anche Molfetta avrebbe seguito la stessa sorte. «Tutto questo devesi», si leggeva sull’Avanti! del 1° novembre, «all’on. Di Tullio, che bocciato a Bari nelle elezioni amministrative, è venuto qui a cercare scampo, e temendo di uno scacco ha brigato per lo scioglimento dei Consigli comunali» di Bisceglie e Molfetta. Mentre il Corriere delle Puglie non nascondeva la sua predilezione per il candidato costituzionale Di Tullio, la Società Magistrale di Molfetta, grata per l’azione parlamentare spesa a favore dei maestri elementari, nell’assemblea del 29 ottobre deliberò di appoggiare la candidatura di Pansini e il 30 ottobre alcuni associati parteciparono all’inaugurazione della bandiera sociale della Lega ortolani. Poi con rappresentanti dei Lavoratori di piazza e muratori, Lavoratori del mare e Società fornai raggiunsero la chiesa dell’Immacolata, dove furono accolti dal parroco Nicola Samarelli, guida dei giovani democratici cristiani, e sulla scalinata il consigliere provinciale Gioacchino Poli esaltò la figura di Pansini. Il 30 ottobre uscì anche il numero unico La Falange Pro Pansini, che attaccava duramente Vescica, cioè Di Tullio, e i cavonisti, ossia i monarchici del Cavone. La battaglia elettorale si accese ancor più quando, nella sera del 30 ottobre, fu annunciata l’apertura del Comitato delle Opposizioni riunite. Il portavoce rag. Anselmo Porta, democratico cristiano, dichiarò, a nome di vari gruppi, di accogliere la candidatura proclamata dal partito liberale «come protesta contro la camarilla amministrativa dei repubblicani, sostenuta dall’on. Pansini». Porta, consigliere della Banca Cattolica del vescovo Pasquale Picone, non era che un esponente locale di quella larga partecipazione dei cattolici allo scontro elettorale, sorta in funzione antisocialista, partecipazione benedetta dal tacito assenso di Pio X a quanti gli chiedevano di allentare il non expedit del 1874, come l’avv. Paolo Bonomi, dirigente cattolico bergamasco. Dopo il comizio, che si sciolse al grido di «Viva Di Tullio! Viva Giolitti!», una numerosa manifestazione monarchica, infoltita da molti ragazzi prezzolati, percorse le vie della città e, passando davanti alla casa dell’ex sindaco Picca, lo acclamò calorosamente. I pansiniani, arrivati al Borgo davanti al Circolo “Cavour”, tentarono una controdimostrazione, ma essa fu sopraffatta e respinta. Il cinquantunenne Gioacchino Poli, onorato militante di vecchie battaglie radicali e imbrianiste, cercò di parlare, ma fu svillaneggiato da fischi e urla assordanti. Gran parte di questi fatti è rivelata dal Corriere delle Puglie, dall’Avanti! e da Ciccillo Picca in una lettera del 1° novembre 1904 al suo amico socialista, pubblicata nel 2017 con altre 96 missive dal compianto Pasquale Minervini nel prezioso volume Francesco Picca, Lettere a Gaetano Salvemini (1902-1924). Nella stessa lettera don Ciccillo aggiungeva: «Ierisera degli emissari del Comitato Pansini vennero a trovarmi per domandarmi se fossi disposto a ricevere una commissione dei loro capi, de Nichilo, i Balacco, [Nicola] Fornari ed altri. Risposi che con i soci dell’Imbriani non voglio aver nulla di comune, che respingo qualsiasi proposta di conciliazione sul nome di Pansini. Stanotte due colpi di rasoio dai pansiniani ai detulliani. Per la votazione verranno tuo padre e tuo fratello Nicola; Mauretto è già qui. Dubito della fermezza del nostro gruppo per l’astensione e che all’ultima ora in risposta ai soprusi del governo votino Pansini e credo che resteremo io e Graziano Poli». Non per niente il 1° novembre la lotta s’infiammò. Su questa giornata un anonimo corrispondente socialista sull’Avanti! del 4 scriveva: «I due partiti – repubblicano e monarchico – non rifuggono da niun mezzo pur di assicurarsi la vittoria. Quest’ultimo poi, conscio del passato, a somiglianza del primo ha pensato ad assicurarsi l’aiuto dei… picciotti, che in passato tanti ottimi risultati ha dato». Per la mancata educazione politica del corpo elettorale, buona parte di esso «vende per cinque lire la sua coscienza come cosa da niente». A Ognissanti fu pure distribuito un nuovo numero della Falange pansiniana, mentre i monarchici diffusero a sostegno di Di Tullio il n. 4 del quindicinale La Sferza, diretto dall’avv. Domenico Palombella, il cui soprannome di famiglia era Stolfé, per l’abitudine di sfoggiare per distinzione lo stifellius. Il 3 novembre si tenne il discorso di chiusura dell’on. Di Tullio, che arrivò con diversi amici di Bari alla stazione di Molfetta verso le 14, salutato da una gran folla. Fu accompagnato alla casa dell’ex deputato liberale Giuseppe Panunzio, dove, acclamato, dovette affacciarsi al balcone per ringraziare e invitare alla calma i simpatizzanti. Alle 17 Di Tullio si recò al Circolo “Cavour” per pronunziare il suo discorso, salutato dai sostenitori di Molfetta e dai rappresentanti del Comitato ditulliano di Bisceglie. Si alzò a parlare per primo don Loreto Tortora, presidente dello stesso Circolo, spiegando la scelta dei molfettesi e dei biscegliesi e l’accettazione della candidatura «prospettandola nel campo dei princìpi » per portare in Parlamento un uomo con piena fede nelle istituzioni e nella Casa Savoia. Gli applausi a Tortora aumentarono quando si levò a discorrere Di Tullio, che ringraziò per l’entusiasmo dimostratogli, respinse le insinuazioni dei nemici e ricordò la sua militanza per Silvio Spaventa e Marco Minghetti della Destra storica, nonché le battaglie per le idealità impersonate dal cognato Vito Nicola De Nicolò, prematuramente scomparso nel 1902, come il senatore di destra Gaetano Negri. I conservatori, a suo avviso, potevano dedicarsi allo studio dei problemi sociali senza essere né socialisti né repubblicani. E a conferma di ciò indicava l’esempio della «fiorente Banca Popolare» Cattolica di Molfetta. Parlò inoltre dei bisogni del collegio Molfetta- Bisceglie, fra cui quelli del porto, della marineria da pesca e della desiderata ferrovia Molfetta-Terlizzi-Ruvo, e concluse il suo discorso mandando un saluto alla «industre» Bisceglie e promettendo di fare il proprio dovere di deputato. Dopo le ovazioni il candidato fu accompagnato da una folla di sostenitori all’abitazione di Panunzio e infine salutato alla stazione per il suo ritorno a Bari. A questo punto, il 3 novembre, il piatto della bilancia sembrava pendere decisamente verso Di Tullio. Privi del sostegno dei clericali, i capi pansiniani si vedevano con l’acqua alla gola e arrivarono a promettere invano qualsiasi sottomissione a Francesco Picca, purché desse la sua adesione al Comitato pro Pansini. Indignati dalla cricca affarista di De Nichilo e dei fratelli Vito e Mauro Balacco, molti elettori di Pansini si orientarono verso Di Tullio e molti altri si professarono astensionisti. Questi ultimi, però, quando il prefetto di Bari Maurizio Ceccato, commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia, mandò anche a Molfetta un commissario prefettizio con questurini e soldati, e assecondato dal delegato di pubblica sicurezza di Molfetta, lasciò affluire torme di minacciosi picciotti forestieri in giro per le strade, parecchi astensionisti, sdegnati, votarono a favore di Pansini. In tal modo il 6 novembre a Molfetta, su 2.169 votanti e con 29 schede contestate e nulle, Pansini raccolse 1.286 voti, Di Tullio 778 e Ciccotti 73, con somma gioia di De Nichilo. Invece a Bisceglie, su 1.000 votanti e con 24 schede nulle e contestate, Di Tullio guadagnò 517 voti, mentre Pansini ne racimolò solo 411 e Ciccotti ne ebbe appena 48. Risultò comunque eletto l’on. Pansini con un totale di 1.697 suffragi, contro i 1.295 di Di Tullio e i 121 di Ciccotti, sconfitto pure nel collegio partenopeo di Vicaria per il pesantissimo intervento ministeriale e prefettizio. In tutto il collegio Molfetta- Bisceglie molto elevato fu il numero di astenuti, ben 1.897 su 4.066 iscritti, con una percentuale balzata al 46,65% rispetto alla media nazionale del 37,28%. In Italia, grazie anche alla partecipazione dei cattolici, le elezioni diedero in generale risultati favorevoli ai gruppi politici più moderati e ai socialisti riformisti. L’Estrema Sinistra perse 8 seggi. Tre ne persero i radicali, scesi a 37 eletti; uno i repubblicani, passati a 24 seggi, e quattro i socialisti, calati da 33 a 29 deputati, uno solo dei quali sindacalista rivoluzionario. I ministeriali giolittiani furono 339, gli oppositori costituzionali di destra 76 e i clericali dell’Unione elettorale cattolica italiana 3. La manovra di Giolitti aveva dato i suoi frutti. Quanto a Di Tullio, il geniale caricaturista barese Frate Menotti (Menotti Bianchi) immortalò il “fiasco” elettorale ditulliano parodiando i ritratti di Mario sulle rovine di Cartagine (come quello di Michele De Napoli ora a Terlizzi) sulla pignatta dipinta Mario e C.° sulle rovine, dove un rotondeggiante e sconsolato Di Tullio con elmo crestato e schinieri sta di spalle a uno scimmiesco e imbronciato Giuseppe Re David, entrambi seduti nudi sulle rovine di Bari, dove era riuscito eletto il rivale Petroni. © Riproduzione riservata