Lino Patruno: una sensibilità felina per le notizie
Ho avuto in squadra Michele de Sanctis per una parte dei miei 13 anni alla direzione della «Gazzetta del Mezzogiorno». Corrispondente da Molfetta, cioè più facile a dirsi che a farsi. In una regione con quasi trecento comuni piccoli e grandi, ma alcuni molto grandi come appunto Molfetta, il corrispondente è per il giornale sindaco e parroco, tenente dei carabinieri e presidente del circolo. E’ insomma la città. Una sintesi della sua fatica quotidiana, dei suoi umori, delle sue attese, dei suoi problemi. Tanta roba per una persona sola, tanta da richiedere antenne accese ventiquattro ore su ventiquattro. Michele, che pur non aveva né corpulenze particolari né movenze da 007, era tutto questo. Perché gli bastava annusare l’aria. Perché i vecchi del mestiere hanno una sorta di terzo occhio che fa vedere ciò che altri vedono solo un minuto dopo. E Michele aveva conservato questa sensibilità felina anche quando le tecnologie informatiche hanno cambiato la vita compresa Molfetta, anche quando l’informazione è diventata un martellamento bulimico spesso indigeribile. Sensibilità da maestro elementare aduso a scrutare anime, signorilità da galantuomo all’antica, occhi limpidi d’onestà, sorriso perenne di serenità. Così ho sempre visto Michele, e anche al di là dell’inevitabilmente congestionato rapporto professionale. Uomo che bussava senza irrompere, dal passo lieve più che marziale, dalla discrezione attenta più che dall’unghiata irruenta: sembrava venuto da un altro tempo in tempi sempre più chiassosi e troppo spesso belluini. E con me, poi, che non ero per lui solo il direttore, avendomi visto crescere come tanti altri al giornale, compreso il suo silente orgoglio, il figlio Felice, il figlio giornalista. Per tutti noi, Michele, piccolo grande esempio anche di rigore per la sua puntualità, la sua disponibilità, la sua attendibilità. Anche quando sembrava, ed era naturale, che l’aria travolgente e i cambiamenti tumultuosi potessero metterlo fuori gioco, che non si ritrovasse più. E non poteva succedere che mi capitasse di andare a Molfetta e non lo avvertissi. Lo facevo per non incomodarlo, ma tanto lui mi beccava lo stesso guidato appunto dalle sue antenne e da una sontuosa ancorché mai debordante capacità di accoglienza. Un senso dell’ospitalità figlio della migliore tradizione della Puglia aperta ai mari come Molfetta e del Mediterraneo aperto agli ospiti come divinità. Così ho sempre visto Michele de Sanctis, al di là della retorica del momento dell’addio. E così mi piace brevemente consegnarlo al ricordo non di chi lo ha conosciuto, ma di chi avrebbe dovuto conoscerlo per capire che è sempre possibile un mondo migliore.