Caro Direttore,
mi hai chiesto di aiutarti a cercare tra gli scritti di don Tonino un brano da proporre in occasione dell'XI anniversario della sua scomparsa. “Uno scritto che ce ne faccia cogliere ancora l'attualità”, hai aggiunto. Ci ho pensato e ho sfogliato a lungo.
Ti suggerisco alcuni brani, quelli che, me lo hanno fatto sentire “attuale”. Se accetti il mio solo “sentire” come metodo empirico per valutarne l'attualità, puoi allora scegliere di pubblicarli. In ogni caso ti ringrazio per avermi dato ancora l'occasione di rituffarmi nelle pagine di una parte di storia che, solo un decennio fa in diversi abbiamo condiviso.
Agonia di nomi
Il primo è un periodo lungo della lettera scritta a Giacobbe, dal titolo “Agonia di nomi” (ora in Ad Abramo e alla sua discendenza, ed. la meridiana pagg. 37-38) : “Il motivo vero per il quale ti scrivo è un altro. È che in questa tua vicenda notturna io scorgo in filigrana non solo l'ansia religiosa degli uomini di tutti i tempi, ma il tormento particolare dell'uomo contemporaneo: quello di voler dare un nome a realtà che gli sfuggono dalle mani. Sì, anche noi, come te, stiamo vivendo un momento decisivo. Quella notte tu lasciavi per sempre la tua terra antica e ti addentravi rischiosamente nel territorio controllato dal fratello-nemico. Stavi facendo, cioè, il passo più drammatico della tua vita: entrare in un continente sconosciuto. Passavi il tuo Rubicone, insomma. Ed ecco densificarsi, proprio sulla frontiera segnata dal fiume, il cumulo delle incertezze simbolizzato dalla tua lotta con Dio. Che, in fondo, fu una lotta per il nome. …. La nostra storia, caro Giacobbe, ti rassomiglia tanto. Anche noi stiamo sperimentando l'oscurità del trapasso. Giunti a una frontiera decisiva della storia, affrontiamo il guado che ci introduce nel terzo millennio e, come te, viviamo il dramma del nome. Le antiche categorie si rimescolano. I vecchi vocaboli non ci bastano più per indicare gli scenari nuovi sulle cui sponde stiamo per approdare. Lo scontro più vero oggi è con l'ineffabile. Gli schemi concettuali che avevano finora sorretto la nostra comprensione dell'universo si stanno sfaldando, minacciati come sono dall'onda lunga di una realtà inedita. Sensazioni impreviste straripano da tutte le parti, e le parole di un tempo non le contengono più. Le dighe lessicali cedono sotto l'urto di emergenze che irrompono con la furia di un tornado. E noi, a ogni realtà che pure tocchiamo ma che ci slitta dalle mani, continuiamo a chiedere, sotto lo spasimo della lotta, come facesti tu: “Qual è il tuo nome?”. .. la nostra è un'agonia di nomi. È una crisi di vocabolario. … Qual è il tuo nome vero da dare, senza prestare il fianco all'equivoco, a quell'ansia di cieli nuovi e terra nuova, nascosta nell'anima di ogni. … Qual è il tuo nome? … Bisogno di nomi vergini. Non corrotti dall'abuso. Nomi freschi. Appena pronunciati. Capaci di ridestare fremiti e di additare promesse. Di indicare fronti e di scaldare petti. …”
Quella nostalgia della fermezza nella Chiesa
Il secondo è un passaggio della meditazione sviluppata nel ritiro del clero del 17.6.1988 (ora in “In confidenza di Padre, ed. la meridiana pagg. 23-26) : “Alcuni dicono che ci vogliono i polsini, o il pugno di ferro. Quanta nostalgia c'è ancora, di certi modo, nella Chiesa! …Si, va bene, la fermezza. Ma la fermezza, oggi io credo che la dobbiamo esprimere non tanto con i decreti, quanto con il comportamento. Che è una fermezza a efficacia ritardata. Ma state tranquilli che quando ci sono delle buone ragioni teologiche, e quando la vostra esistenza è una esistenza teologica, è difficile che la gente poi, a lungo andare, non avverta il fascino di una linea. Perché la gente forse oggi ha bisogno di questi orientamenti complessivi, piuttosto che dei disegni delle viottole che deve intraprendere. (…) Ho dimenticato che una guida è meglio che si ritiri se non è anche capace di esprimersi con tutte le caratteristiche della vigilanza discreta, dell'intervento rapido, dell'uso sapiente del vincastro: del governo, insomma, che fanno di lui il timoniere della barca, impegnato nella fatica spesso penosa dell'assemblaggio, afferrato continuamente dalla rotta complessiva, e proteso nello scrutare i traguardi finali….
Il tradimento dei chierici
Il terzo è un passaggio della lettera pubblicata sul bollettino diocesano “Luce e vita” dal titolo, da lui stesso definito esotico “Trahison des clercs”:
“Io, però, voglio oggi parlarvi del vostro tradimento. E non di quello da voi messo in atto come ritorsione nei confronti della Chiesa, ma di quello ben più grave da voi operato nei confronti della città.
Ci state lasciando soli.
Vi siete ritirati nelle vostre torri d'avorio, non si sa bene se a meditare vendetta, o a ruminare sterili supplementi di analisi, o a contemplare dalle vostre aride specole i fasti di una dietrologia senza speranza.
Siete latitanti dall'agorà. È più facile trovarvi nelle gallerie che nei luoghi dove si esprime l'impeto partecipativo che costruisce il futuro. State disertando la strada. Per scarnificare la storia di ieri, state abbandonando la cronaca di oggi che, senza di voi, è destinata a diventare solo cronaca nera.
Sul vostro labbro si coglie uno sconcertante abuso di ironia, che mentre esprime lucidità di memoria, appanna la lucidità dei progetti. Manca nel vostro linguaggio quel sarcasmo appassionato che è indice di solidarietà con la storia degli uomini. Vi siete staccati dal popolo, così che, per la vostra diserzione, stanno cedendo nell'organismo dei poveri anche quelle difese immunologiche che li hanno preservati finora dalle più tragiche epidemie morali.
Vittime del privatismo, il male oscuro del secolo che voi per vocazione avreste dovuto debellare, avete abbandonato i laboratori della sintesi dove la poesia si mescola col giornale, il sogno con la realtà, la tensione assiologica con le fredde esigenze della tecnica, gli spartiti musicali della vita con gli arrangiamenti banali dei rumori quotidiani.
E intanto la città muore. Col vostro nulla osta. La città benestante, consapevole dei suoi mezzi ma cieca nei suoi fini, corre verso un degrado di felicità mai conosciuto finora; mentre la città diseredata vive in simbiosi con la disperazione più nera e langue per asfissia da futuro. … non posso chiudere gli occhi di fronte alle situazioni pesantissime di miseria, di disoccupazione, di violenza, di ingiustizia, di violazione dei diritti umani, di affossamento dei valori, di degenerazione della qualità della vita e di cento altri fenomeni patologici, di fronte ai quali viene chiamata in causa la vostra correità di intellettuali che, pur essendo vestali della luce e sentinelle della città, scorgete la barbarie andare in metastasi nel tessuto della nostra convivenza e continuate a star zitti.
Ci state lasciando soli a tamponare emorragie e a fasciare piaghe sulle trincee.
La tentazione di crescere salendo sulle spalle dell'altro
Il quarto e ultimo è un passaggio dell'Omelia nella Messa della prima Domenica di Quaresima del 1987, trasmessa in televisione dal Duomo di S. Corrado ( ora in Sui sentieri di Isaia, ed. la meridiana, pagg. 84-85)
“Potremmo chiamarle: le tentazioni delle tre «P»: profitto, prodigio, potere.
Il che significa: strumentalizzare le cose, Dio, l'uomo.
Fa' che le pietre diventino pane.
Ridurre tutto a economia, a ventre. Convertire anche i sogni in assegni circolari. Niente fiori, solo denaro. Niente poesia, solo ricchezza. Niente musica, solo profitto. Anzi, massimizzazione del profitto, se perfino le pietre devono diventare pane. Produzione. Ideologia della produzione, mascherata, magari, dall'ipocrisia di voler saziare la fame dei popoli.
Ma, oltre alla strumentalizzazione delle cose, c'è anche quella di Dio: “Gettati dall'alto: lui ti salverà”.
Ecco la tentazione del prodigio. Il distorcimento della religione a scopi di interesse. Un Dio utile. Di cui ci si serve. Funzionale ai miei progetti. Che legittimi le mie follie.
Com'è comodo un Dio che ratifichi il mio disimpegno e mi sostituisca nelle scelte decisive!
Ti darò in mano tutti i regni del mondo.
Ecco la tentazione del potere. Crescere salendo sulle spalle dell'altro. Schienare il prossimo perché dipenda da me. Togliergli l'aria, perché deve prenderla dalle mie bombole. Negargli la dignità perché sia io a conferirgliela col contagocce. Costruirmi metro della sua libertà, usurpando un diritto che anche Dio esercita con pudore.
Stringi stringi, tutte le tentazioni si riducono a questo triplice modulo.
E come reagisce Gesù? Con altre tre «P»: Parola, progetto, protesta.
Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
… Ed ecco la seconda reazione di Gesù, che possiamo articolare attorno alla parola «progetto».
Non tentare il Signore Dio tuo.
Cioè: non rinunciare a progetti storici precisi, in cui si chieda impegno, fatica, intelligenza. Se ti batti per la pace, non accontentarti di invocarla soltanto, ma disegnane le possibilità concrete di attuazione. Se lotti per il pane dei fratelli, adopera strumenti propositivi datti… Non pretendere miracoli da Lui, laddove l'unico miracolo da chiedere è che tu esca dal fatalismo in cui rischi di imprigionarti, forse anche in nome della fede.
E, infine, la protesta.
…Se è vero che il deserto nel mondo è pieno di aspiranti al ruolo di Dio, tu smascherali senza paura. … Ma smonta anche le strutture del peccato che opprimono te.”
P.S. Confidenzialmente, caro Direttore, ho provato a capire cosa tenesse insieme nel mio interesse questi brani così disarticolati tra loro. Forse la constatazione che al nodo cruciale che come società stiamo vivendo, fa da contrappunto la percezione che gli sguardi si facciano sempre più brevi. E di conseguenza l'impegno e la tensione arranchino. E, più amara tra tutte, la sensazione che riducendo lo sguardo, si sia ritratto il profilo della coscienza di ognuno.
Elvira Zaccagnino