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La processione della Settimana Santa negli anni Dieci del Novecento
15 marzo 2020

Alla ricerca dello studium, del punctum e della terza stigmate, il Tempo, sulle orme di Roland Barthes: Tempo come “enfasi straziante del noema (“é stato”), la sua raffigurazione pura”. Sembra essere questo l’intento che anima chi raccolga in una storia per immagini in severo bianco e nero. E’ sempre Barthes a scrivere di “attaccamento a certe foto” in cui noi distinguiamo una area di interesse culturale e socioantropologico (studium), ma anche quella “striatura imprevista” che attraversa le foto medesime (punctum). Emblematica la descrizione che egli fa di una foto di William Klein, scattata a Mosca nel 1959: “noto il grosso berretto a visiera d’un ragazzo, la cravatta d’un altro, la sciarpa della vecchia”; ecco che la fotografia, nella sua dimensione di contingenza pura, restituisce particolari che alimentano non solo il sapere di chi osserva. Il nostro sguardo postmoderno, per dirla con Lyotard, indugia sulle scene delle processioni, sugli elementi architettonici di un tempo nella assoluta certezza di carpire il fluire delle cose, nella convinzione di viaggiare nel tempo, all’indietro. Gli scatti qui proposti permettono, infatti, di osservare il fluire della Storia nei primi del Novecento. In Puglia, tra ‘800 e ‘900, la fotografia riguarda i grandi centri come Bari o Lecce; la produzione dei piccoli studi fotografici operanti in paesi come Molfetta è oscura, insondata, da svelare. Da fondi o collezioni private provengono fotografie veramente interessanti, pubblicate recentemente in raccolte a tema; a Molfetta erano attivi già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fotografi, essenzialmente ritrattisti. E’ il caso del molfettese Michele De Gennaro che realizzò in studio un ritratto del poeta ed intellettuale Giacinto Poli (1811-1882). I suoi canoni estetici erano quelli soliti della rappresentazione ottocentesca della borghesia, in corrispondenza alla diffusione delle Carte de visite e del ritratto in formato Gabinetto, un modo di fotografare che rimanda alla ritrattistica in pittura. Di una generazione seguente a De Gennaro è Luigi Aiello, del quale sono noti molti scatti, tra cui assume qui particolare valenza simbolica quello del 1901, raffigurante l’allestimento del Sepolcro del Giovedì Santo presso la Chiesa di Santo Stefano. L’importanza delle fotografie di Aiello è rimarcata considerevolmente dall’utilizzo che ne fece, negli anni Venti del Novecento, anche lo studioso Saverio Lasorsa (1877-1970), che più volte pubblicò foto riguardanti le cerimonie della Settimana Santa. Anche il più famoso Enrico Bambocci, specializzato nella documentaristica e nella fotografia di monumenti, documentò, nel 1903, il sepolcro nella chiesa di Santo Stefano. E’ una congettura (forse non troppo lontana dalla realtà) attribuirgli le fotografie, non più rintracciabili, dei sepolcri degli anni 1895-1896? Una lunga stirpe di fotografi molfettesi è attiva dai primi del Novecento, tutti in qualche non irrela-ti ai riti della Settimana Santa. Di loro vi é testimonianza visibile nelle raccolte private fotografiche come quelle preziose di Maurangelo Cozzoli e di Ignazio Pansini. Barthesianamente, “la Storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda - e per guardarla bisogna esserne esclusi”. Ogni scatto non costituisce “l’oggetto visibile di una scienza; non può fondare un’oggettività, nel senso positivo del termine”; in tutti gli scatti potrebbe prevalere lo studium, la riflessione sull’epoca, sui vestiti, sulla fotogenia. Non in tutti vi sarebbe, tuttavia, quella ferita di cui parla Barthes. Ed è ancora lui che guida idealmente la riflessione dell’osservatore di questo album giacché noterà che “la Fotografia ha qualcosa a che vedere con la risurrezione: forse che non si può dire di lei quello che dicevano i Bizantini dell’immagine del Cristo di cui la Sindone di Torino é impregnata, e cioè che non era fatta da mano d’uomo, che era acheiropoietos?”. Per Susan Sontag la Fotografia “è un’arte elegiaca, un’arte crepuscolare un memento mori. E’ insieme una pseudo presenza ed anche l’indicazione di un’assenza”; quanto appare vera questa affermazione nello scorrere le fotografie di questo album “sacro”! Sembra che Essi ci siano, ma in realtà sono profondamente assenti. Traspare il cambiamento del modo di essere della Fotografia nel Novecento, sino allo shock degli smartphone, con camera incorporata; se Sontag avesse conosciuto i cellulari, probabilmente avrebbe scritto che essi rappresentano “l’arte quintessenziale delle società opulente, dissipatrici e irrequiete, uno strumento indispensabile della nuova cultura di massa”. Sontag, tuttavia, scriveva nel 1973 di apparecchi fotografici che avevano comunque cambiato l’estetica della Fotografia: “la tecnologia ha accorciato l’intervallo tra il momento in cui si scatta la fotografia e quello in cui la si può avere in mano”, ma si riferiva alla Polaroid, che pur aveva ripristinato il principio della dagherrotipia: ogni copia è un oggetto unico. Barthes ha scritto della malinconia della Fotografia, ma la Fotografia è, per Vilém Flusser, qualcosa che ripropone l’antico “gesto venatorio del cacciatore paleolitico nella tundra. Non insegue la sua cacciagione nella prateria aperta, bensì nella giungla degli oggetti culturali”: c’è la resistenza della cultura, il suo condizionamento. Le foto proposte non richiamano l’estetica dei moderni circoli di “fotoamatori in cui ci si inebria delle complessità strutturali degli apparecchi e che sono fumerie d’oppio postindustriali”: si tratta di una estetica lontana dal “chiasso fotografico”, in cui “tutto grida in tutte le tonalità, ma sono grida nel deserto”. Perché il bianco e nero costituisce la quiddità della Fotografia? Sostiene il fotografo Piergiorgio Branzi che “in una foto a colori si vede soltanto il colore, in una foto bianco nero si vede il contenuto ed il messaggio della foto”; si afferma qui il valore paradigmatico della predilezione per l’essenzialità del bianco e nero (un esempio valga su tutti, Brassaï, Les Escaliers de Montmarte, Paris 1936). Alla fine degli anni Ottanta del Novecento, una nuova frontiera appare, la mobile photography d’autore però, non quella compromessa dalla volgarità o dal senso banale della quotidianità. E perché non pensare ad un nuovo paradigma fotografico, quello di Hal Hirshorn quando ricrea, con la tecnica del calotipo di Talbot, il funerale vittoriano di Seabury Tredwell avvenuto nel 1865? Così forse, con un’operazione di illusionismo fotografico, potremmo scrutare i segreti e gli arcana reconditi del Tempo. © Riproduzione riservata

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