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La luce del mondo antologia della Vallisa
15 settembre 2012

In una società sempre meno disposta a indulgere al sogno o a lasciarsi rapire dalla meditazione, i poeti possono incarnare l’assunto evangelico giovanneo e rendersi “luce del mondo”, perché “il loro splendente calore demiurgico squarcia le tenebre della negatività”. Sono parole di Marco Ignazio de Santis, stimato collaboratore di “Quindici”, nella prefazione alla bellissima antologia da lui curata “La luce del mondo” (Tabula Fati, 2012), realizzata dai sedici poeti redattori della prestigiosa rivista “La Vallisa”, nel 2011 giunta al traguardo del trentennale. Il sodalizio dei poeti lavallisiani opera da anni ai fini della diffusione di quel “contagio poetico” che potrà rendere il mondo più incline al dono straordinario della bellezza. I sedici autori dell’antologia hanno corredato i loro versi di una breve e accattivante autobiografia. Nicola Accettura, chimicopoeta, coglie nei miracoli della natura germogli di verità. Forse l’uomo è più simile di quanto pensi alla condizione dell’elettrone, “confinato in un’orbita stazionaria” e, come per ogni reazione chimica, anche per lui giungerà il “quenching”, l’inevitabile spegnimento. Donato Altomare si interroga sul destino del cosmo e l’esistenza di Dio. La rievocazione di momenti difficili, in cui sembra prevalere la eduardiana teoria della “nottata da trascorrere”, si affianca all’immagine di una figura femminile, l’amata, ch’è grazia e riconciliazione col mondo, pur (e forse proprio per il) suo “esser di luna”. Domenico Amato incanta con la sua poesia in vernacolo ricca di maliose suggestioni foniche. Rivive con vigorosa bellezza la Molfetta arcaica, simile a una “nêchë”, accarezzata con dolce violenza dal dio vento, popolata da anime in perpetua auscultazione del mondo: le vecchie che, nei bassi, dialogano con le anime dei defunti e il vecchio pescatore che “gioca con i suoi pensieri / come un gatto / con i gomitoli di lana”. Enrico Bagnato coglie le infinite variazioni di un’esistenza/ viaggio – preziosa la metafora della “sosta in un giardino” –, trascorsa all’insegna del godimento effimero di doni che la sua poesia deliba a fior di labbra, siano essi la bellezza prorompente di una ‘gazzella’ in mini bikini o la comodità di un paio di scarpe capaci di rendere l’itinerario più confortevole. Rino Bizzarro appare in perpetua ricerca di quel “sentiero smarrito” che cita nella sua biografia. La condizione dell’uomo è quella di chi brami catturare le stelle dell’Orsa con un improvvisato retino da acchiappafarfalle. Così l’umanità annega nello strepito, di cui solo una provvidenziale Ipoacusia potrà attenuare lo squasso; a volte essa è indotta a sciogliersi nella preghiera dolceamara di chi ha timore dell’ignoto. Gaetano Bucci opta per una collana di sonetti che esaltano il valore salvifico della pietra, nell’epoca alienante del cemento e degli asfalti. Il registro poetico si inarca tra recupero dialettale come memoria ancestrale e promessa di consistenza; tra profezia e pietoso ascolto del canto/urlo dolente di tanti “poveri cristi” violati dalla storia. Angela De Leo trasfonde in poesia dolcissima e malinconica le sue emozioni, pennellando una struggente ballata-addio all’amato, che attinge all’universale in passaggi come questo: “Niente è nel tempo il nostro tempo / (non più il tempo niente più nostro)”. La sua lirica dice e sottace, si eleva soave-amara come un canto di mandola e si avvolge su ricordi che, simili a “rovi di biancospino”, contrastano l’amara “danza dei calendari” e restituiscono senso all’esistere. Le liriche di Marco Ignazio de Santis hanno il respiro cosmico del vento di specole campestri, in cui le rose tornano a sbocciare silenti. Costante in lui l’interrogazione sull’essenza della poesia e sul suo ruolo in una società di plutocrati che relegano l’intellettualità agli ultimi posti, senza offrire loro possibilità alcuna di riscatto. L’amarezza derivante dal restare inascoltati non annichilisce l’eroismo dei poeti-argonauti in perenne ricerca della bellezza. Gilda Ferrari punta sull’autoanalisi, allo scopo di scrollar via “doli e dolenze”, elaborando, attraverso la poesia, un delicatissimo itinerario di rinascita e autorealizzazione: “E intanto amare scrivere / pensare riempire di luce anche / l’ultimo angolo nascosto”. Per non cedere al gorgo dei deliri e alle ansie che affiorano dal nulla. Zaccaria Gallo arabesca con maestria, da artista colto e al contempo comunicativo. John Ashbery, Lutz Seiler, Friedrich Nietzsche, Seamus Heaney e Manuel Scorza offrono l’occasione per rafinatissimi intarsi metaletterari, in cui frammenti di biografie (è il caso della morte di Manuel Scorza per un incidente aereo nel 1983) si intrecciano a suggestioni letterarie, innestando un canto di notevole intensità. Daniele Giancane, direttore della “Vallisa” e anima del sodalizio, traccia un bilancio neocrepuscolare e metafisico al contempo. Piccoli scampoli di quotidianità acquisiscono valore catartico agli occhi del poeta. Il fluire dell’esistenza è nel vitalismo di un ragazzino che addenta “voglioso / un pezzo di focaccia calda” e dalle meraviglie che ci circondano si può desumere chiaramente “l’imbecillità degli atei”, i quali, dinnanzi ai grandi e irrisolti interrogativi esistenziali, non hanno nemmeno il “buon senso / di schernirsi”. Angela Giannelli, in “Marzo”, intesse un robusto poemetto della lontananza, giocato sull’onda dell’emozione e sull’autoanalisi. Le immagini, tutte suggestive, si rincorrono, in un flusso ininterrotto, per associazione di idee e sensazioni, in un caos apparente che confina col misticismo e riesce di notevole impatto emotivo. Renato Greco alterna grigie tessiture di esistenze (come quella – in apparente parabola involutiva – di Claretta, che perde attrattive agli occhi di un antico innamorato), a momenti di luce. Quando rievoca “Un mattino di sole”, che dona nuova linfa alla vita di coppia, grazie a una “luce che (...) ride nello sguardo” della donna. Ed è subito gioia e poesia. Loredana Pietrafesa ammalia, in un moto ondoso che la induce a cercare nella creazione poetica una sorta di “buen retiro” dal quotidiano male di vivere. Emerge fortissimo l’amore di madre, che è uno dei temi cardine della produzione della scrittrice lucana; amore che disegna “un paradiso tutto rosso” da esplorare – magari con “rosse scarpe per volare” – e non si rassegna all’addio. Giulia Poli Disanto osserva lo scorrere delle stagioni, metafora del tempo andato, e si tuffa nel passato, a riannodare le fila di esistenze purtroppo giunte all’occaso, ma pronte a rivivere nel soffio dolce del vento e in gocce di poesia che si spandono nell’aura intorno. “Ricordo il tuo volto, Padre, / è baciato dal sole, / dal vento, dalla pioggia / ancora”. Anna Santoliquido intesse poesia ariosa e viscerale al contempo, figlia della cultura e della civiltà contadina forenzese; poesia che setaccia bellezza come fosse dorato raccolto: “tra i chicchi di grano / luccicano diamanti / dono degli elfi”. Mentre segue indomita la genesi di versi germogliati dall’ “ascolto” del cuore, Anna avverte il respiro di Ocello, per poi dialogare con gli “estinti” in un’atmosfera surreale, di cui sono partecipi persino Minerva e la Gioconda, mentre “l’orcio e l’olla” divengono garanti della perpetrazione del ricordo. E la poesia resta viaggio luminoso nell’immenso.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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