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La forza delle donne alla Fidapa
15 giugno 2014

Un delicato omaggio all’artista messicana e all’energia femminile, che si misura con le avversità del destino e della società, la collettiva d’arte contemporanea “La Forza delle Donne. Pensando a Frida”, organizzata dalla sezione molfettese della FIDAPA (presieduta da Angela Alessandrini), col patrocinio del Comune di Molfetta, e curata da Daniela Calfapietro. L’allestimento è stato inaugurato il 18 maggio, presso la Sala dei Templari. È stato inserito nel maggio molfettese, caratterizzato da una serie di conferenze, tra le quali ricordiamo la conversazione sul tema “Sante, streghe, principesse, madri – La donna nell’età barocca” del professor Angelantonio Spagnoletti; la presentazione, per opera di Anna Gramegna, del libro “Trascolora l’ora” della scrittrice e critico letterario Jole de Pinto; l’incontro sull’impegno delle donne nella politica, che ha veduto la ricercatrice Letizia Carrera dialogare con Vittoria Sallustio. Il 20 giugno avrà luogo la presentazione della silloge “Sessantaquattro- Versi sciolti e parole in catena” della stessa Calfapietro. È un volto ancipite quello femminile che si staglia nitido da questo incontro di artiste. L’omaggio al viso di Frida, alle sue spigolosità, ma anche al dono dell’artista messicana di abbracciare il surreale, di schiudere nuovi mondi allo sguardo vibra nell’opera di Carmela de Dato. L’indagine del volto è condotta in una dimensione ovattata, in cui lo specchio diviene acquatico e infedele rivelatore delle pieghe dell’anima in Mina de Ceglie. Pina de Martino scommette sul cuore, tra emozioni e solitudini: le sue donne talora volgono le spalle all’osservatore o, in altri casi, non gli rivolgono lo sguardo, tutte comprese in una dimensione intima e inafferrabile, che non esclude il bacio salvifico della maternità. Tra emancipazione e surrealismo si muove Loredana Albanese: lo specchio assume nuovamente funzione di strumento di conoscenza di sé, ma, per librarsi in un volo aereo e liberatorio, occorre attivare la dimensione del sogno. Loredana D’Ippolito col suo “Angelo orientale” esprime richiami ancestrali, evocando un femminino ambiguo, lunare e lucente al contempo. Molte autrici si cimentano col tema della “maternità”. Oltre alla già citata de Martino, questo tema si rivela caro a Elisabetta Raguseo e Valeria Porcelli. Tutte lo risolvono in chiave non convenzionale. La seconda opta per una “sacra famiglia” afrostyle, un’interessante partitura di linee e cromatismi, con il nero delle figurine a contrappuntare il giallo squillante. La prima recupera l’archetipo mariano, declinandolo in scenari di moderna povertà, connotati da una grazia ruvida che punta al cuore. Convince anche la silhouette di madre e figlio, che declinano una gioia senza fine, sullo sfondo di un tramonto rosso-violaceo e di un mare striato di mille cangianti venature, opera di Mariella Valentini. La stessa ci offre una pregnante icona di “solitudine femminile” alla finestra: il mare ha il colore delle vesti che vorrebbero librarsi lontano; la tenda, come una quinta teatrale, delinea lo spazio di una quotidiana recita di “maschere” senza volto. Pina Pisani ha la consueta surreale capacità, col suo stile energico, di decostruire il reale, di restituirne l’intima natura in bande di colore che s’ergono flessuose dal monocromo sfondo, a pennellare la forza, ma anche il “mistero senza fine bello” della donna. Maria Addamiano emerge aerea, come sempre, sia che nella pittura evochi un caleidoscopio cromatico che cela un volto muliebre in trasparenza, sia che si cimenti, nelle sue sculture in EcoArt, con ironia e pregnanza, nella meditazione sul destino femminile. Un fato contrassegnato non di rado dalla solitudine, dall’attivismo che tenga a bada il male di vivere, dalla bonomia che induce al sorriso. Sempre, anche tra le lacrime. Maria Bonaduce risalta per la sua duplice dimensione: da un lato, il sogno, che traluce nell”energia femminile” di un’argilla mosaicata, dal celestino chiarore che dialoga con la bianca purezza. Dall’altro, la dimensione straniante delle città, inferni di caligine in cui solo l’attitudine alle ali di una fanciullezza spesso violata può evadere con levità. Mariangela Ruccia denota la consueta padronanza nel suo amorevole percorso di modellamento di argilla e raiku. L’”Illuminata” appare pacificata e perfusa di soavità, ma nel “Dono” ancipite si annidano secoli di misoginia, di attribuzione alla donna delle origini del male del mondo, quando, invece, se qualcosa connota realmente l’indole femminile, è l’apertura alla speranza, a quel dolce vento che coadiuva il percorso esistenziale di ogni individuo. Laura Piccininni si muove tra la figurazione dell’”Alma mater” e l’immagine funerea e straniante dell’”Amor negato”, dando prova di pregevole capacità di trasfigurazione del reale. Maria Teresa Gadaleta si cimenta con la fotografia stampata su legno, a disegnare due immagini della donna: quella pre-emancipazione, connotata dalla “fatica di vivere”, e quella frenetica, pasionaria, fieramente sanguigna delle lotte per la parità dei diritti. Loredana Cacucciolo dona prove poderose nelle sue “Stanze di Andrea”: interni domestici divengono “non luoghi”, connotati dall’assenza e circonfusi di un’aura ovattata. Sembra che, come nei drammi sintetici di Marinetti, le poltrone possano acquisire improvvisamente vita; eppure, il tutto finisce con l’essere pervaso da un neocrepuscolarismo melanconico. Interessanti le opere degli “ospiti”. Gianluca De Bartolo, fotografo, ci offre una “maternità” straniante, spigolosa, quasi millenaria e scolpita dalle rughe di una vita infida. Franco Valente espone una bella testa di donna in argilla cotta bianca, che ci ricorda certe raffinate sculture di Gaetano Stella. Nelle due prove in argilla cotta rossa, emergono le possibili vie di affermazione della donna. La figura muliebre intenta alla lettura ci conduce col pensiero alla poetessa Isabella Morra che, grazie alla sua Musa, dopo la morte, ha vinto l’incantesimo malvagio dei luoghi “ermi e selvaggi” in cui la Fortuna l’aveva confinata. La seconda è l’immagine delle nostre “matriarche”, non belle, ma con lo sguardo vivo, capace di dominare il reale. “Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai più”, sosteneva Frida Kahlo a proposito della morte e Daniela Calfapietro, in un’imponente olio su tela, rappresenta l’Anima Mundi. La luce piove da sinistra e illumina un trionfo d’azzurro, il colore del divino. Un misticismo panico intride cielo e terra, i cui cromatismi si fondono e confondono, riverberandosi nel corpo, divenuto anch’esso cantico d’immenso. Sehnsucht e speranza dialogano con infinita dolcezza.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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