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L’ossessione del potere
15 febbraio 2017

Nel caos della politica attuale non solo a livello locale, ma anche nazionale e internazionale (vedi fenomeno Trump) ci è venuto in mente (vecchie reminiscenze culturali) un saggio del politologo statunitense Harold D. Lasswell, noto per i suoi studi dedicati alle scienze politiche e alle teorie della comunicazione, intitolato Power and Personality scritto quasi 70 anni fa nel 1948, ma che ci appare di preoccupante attualità. Lasswel attribuisce senz’altro al «tipo politico », ovvero alla «personalità politica», un processo mentale e un orientamento all’azione segnati da tratti di immaturità (almeno in senso lato) e di non trasparenza. Per Lasswell l’ipotesi centrale è che chi ricerca il potere, lo faccia per compensare privazioni e perché è attratto dalla promessa che il potere serva a vincere una bassa stima del sé, attraverso la modifica di se stessi o dell’ambiente in cui si opera. Ci sarebbe addirittura una correlazione direttamente proporzionale, che ritroviamo anche nel classico nesso, tra frustrazione e aggressività, tra l’intensità delle carenze e la ricerca sempre più spasmodica delle vie di uscita. In particolare, «si ricorre al potere quando ci si attende che esso sia più efficace di qualsiasi altro valore alternativo come mezzo per superare o impedire le privazioni del sé» (pg. 427). Nel tipo di personalità politica, osserva Lasswell, la motivazione al potere evolve poi secondo un percorso tipico costituito da tre tappe. All’inizio ci sono sempre moventi privati, caratterizzati essenzialmente da un desiderio intenso e insoddisfatto di deferenza. La mancata risposta a questo desiderio nella cerchia primaria, fa sì che le stesse brame vengano successivamente trasferite su oggetti pubblici, ovvero su persone e attività connesse con il processo politico. Ma ciò ancora non basta a dare una risposta esaustiva alla domanda interna e a quella del pubblico esterno. Scatta allora il terzo momento, in cui il trasferimento viene razionalizzato in termini di interesse pubblico. Riflettevamo su quanto di questa teoria, certamente datata come pubblicazione, ma sicuramente attuale, anche se non particolarmente nuova, riesca a conciliare meccanismi causali di tipo psicologico ed esiti esterni di tipo politico. Il «trumpismo» forse è la massima espressione di questa teoria, soprattutto perché in quell’America che abbiamo imparato ad amare per certi versi (libertà, multiculturalità, diritti umani, ecc.) e ad odiare per altri, come dice Curzio Maltese, «abbiamo capito che semplicemente dovremo farne a meno». Anche in Italia non siamo messi meglio tra ambizioni e sbornie renziane, xenofobie salviniane e ritorni fascistoidi meloniani, nostalgie staliniste da una parte e berlusconiane dall’altra e, infine, grillismi nervosi, inconcludenti e intolleranti. Ci appare lontana mille anni l’esortazione kennediana della nuova frontiera: «Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, ma cosa puoi fare tu per il tuo Paese». E da Renzi, cover di Berlusconi, come lo definisce Crozza, arriviamo alle miserie politiche nostrane. Lo scenario che ci appare all’orizzonte più immediato, non è dei più esaltanti. Anzi, è decisamente avvilente. L’ossessione per il potere a Molfetta, sta trasformando la politica, già compromessa da giochi e giochetti e da una classe dirigente mediocre, in un mercato delle vacche, dove si vende di tutto al miglior offerente, spacciando prodotti vecchi per nuovi. Cosa è in grado di proporre e produrre la politica locale? I Tommasi Minervini e le Annalise Altomare (al plurale perché i soggetti sono mutevoli come camaleonti, secondo le necessità del momento) di passate fallimentari esperienze che si riciclano solo per soddisfare la loro ossessione del potere. Invece di fare i padrinobili della politica (definizione un po’ eccessiva, ma ci si potrebbe accontentare), si gettano nella mischia barattando consensi da improbabili liste civiche, non strutturate politicamente, ma legate a singole marionette politiche, mosse dal burattinaio Tammacco che, agitando i suoi fantomatici novemila voti delle Regionali, cerca di attrarre non solo i due dinosauri della politica locale (al quale occorre aggiungere il mesozoico Lillino Di Gioia), ma anche il Pd, nella sua morsa mortale. Fino a quando il neo segretario, eletto all’unanimità al congresso, è bene ricordarlo, riuscirà a controllare le schegge impazzite Altomare e De Nicolo che hanno la voglia di partecipare al risiko politico tammacchiano? L’ex segretario del Pd, rimasto con le armi spuntate dopo la cessione della segreteria, in seguito al disfacimento del partito, che gli è rimproverato anche dal leader Emiliano, tenta in tutti i modi, di portare il Pd nella sponda delle civiche che hanno indicato Minervini come candidato sindaco. Stessa cosa avrebbe voluto fare Annalisa Altomare, che pensava di aver raggiunto già un accordo con Tammacco, sfumato per la resistenza del nuovo segretario Di Gioia ad alleanze spurie, il quale ha preferito tentare un accordo con la coalizione di centrosinistra vincente nel 2013. Ora alla protagonista della caduta della propria amministrazione di centrosinistra guidata da Paola Natalicchio, non resta che cercare un accordo col senatore di Forza Italia Antonio Azzollini, per tentare di ottenere la tanto desiderata candidatura a sindaco. Più veloce è stato Tommaso Minervini, il quale pur di tornare ad indossare la fascia tricolore, non ha esitato, come in passato, a gettare la maschera di finto politico di sinistra, per indossare l’altra giacca nera che ha conservato nell’armadio (ricordate la vignetta di “Quindici” di qualche anno fa?). E così, come rappresentiamo efficacemente nella vignetta di Michelangelo Manente di questo numero della rivista, Annalisa e Tommaso si sfidano a un duello mortale per entrambi come quello di Amleto e Laerte nell’opera shakespeariana. Del resto, come ci si può fidare di liste civiche, senza storia e senza struttura, legate a improbabili personaggi, pronti a diventare potenziali ricattatori di qualunque amministrazione? Ecco perché si fa più pressante la corte al Pd e agli amici centristi e opportunisti al suo interno. Il senatore Azzollini sembra aspettare i cadaveri dei suoi ex compagni sulla riva del fiume e non disdegna di giocare la carta Annalisa (con la quale ha già avuto contatti) come leader del centrodestra. Del resto quella che vuole essere la Giovanna d’Arco locale, in realtà ha già indossato la divisa berlusconiana: voltagabbana era e voltagabbana resta, soprattutto perché non è mai stata fedele al suo partito, qualche che fosse. La coalizione di centrosinistra, dal canto suo, non vive momenti migliori, divisa tra gli stalinisti rifondaroli che vogliono correre da soli con un proprio candidato sindaco (per evitare l’estinzione), ammenocchè il loro uomo non venga accettato come leader di tutta la coalizione. Ma questo non può permetterlo il Pd (partito di maggioranza). Così i giochi sono ancora aperti e forse una novità importante potrebbe essere rappresentata dal ritorno di Paola Natalicchio nell’aula di Palazzo Giovene, non come sindaco, ma come capolista di una coalizione che comprenda Sinistra Italiana, Rifondazione e liste civiche, come MolfettAttiva. I primi approcci sono avvenuti a margine del congresso di Rifondazione, al quale è intervenuta anche la Natalicchio. Che faranno Dèp e Linea Diritta? Ma la situazione è tutta in fieri, soprattutto sul candidato sindaco. Del resto al momento in cui chiudiamo questo editoriale, non possiamo prevedere quali potranno essere le ulteriori evoluzioni dello scenario politico locale. Il rischio di tornare indietro è concreto, l’ossessione del potere e il trumpismo dilagante, anche.

Autore: Felice de Sanctis
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