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L'inverno del nostro scontento
15 febbraio 2014

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via, un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ci è venuta in mente, qualche giorno fa, questa bella frase di Cesare Pavese, mentre riflettevamo sulla condizione attuale della nostra Italia e della nostra Molfetta. E abbiamo pensato che le cose vanno male anche perché, da tempo ormai, non ci sentiamo più un paese, piccolo o grande che sia, Comune o Stato, ma soprattutto comunità che si riconosce nella storia, nel costume, nella cultura, nell’identità. In una parola, nelle radici del nostro popolo, quelle che ci hanno trasmesso i nostri padri, i nostri antenati, la nostra gens, non intesa come clan ristretto, ma allargato come “gente”, come si dice oggi: cosa pensa la gente, cosa dice la gente, cosa fa la gente. La gente comune, quella in cui ci si riconosce, quella a cui si sente di appartenere, quella che lavora e fa sacrifici per vivere dignitosamente e non quella casta che accumula privilegi, senza lavorare né tantomeno sacrificarsi. “Se la nostra vita veramente non la poggiamo sugli altri, la nostra vita cade”, ci insegnava l’indimenticabile don Tonino Bello. E a quella gente, a quegli altri verso i quali ciascuno di noi dovrebbe riconoscersi, dovremo fare appello per salvare il nostro Paese dalla disperazione, dalla mancanza di fiducia e di futuro. Ma non servendoci di quelle forme di populismo alla Berlusconi ieri e alla Grillo oggi, falsi paladini del cambiamento, ma reali conservatori di diseguaglianze e privilegi, per i servi che saranno sempre grati al padrone che regala prebende, a cominciare dal posto in Parlamento. Oggi assistiamo ad uno smarrimento crescente della gente che non ha più fiducia in niente, che non ha più speranza, che non vede il futuro: i vecchi si rassegnano e i giovani vegetano, non cercano più il lavoro, tanto sono sicuri che non c’è, soprattutto se non sei raccomandato o inserito in un clan. Ma gli altri oggi per noi sono diventati dei nemici da combattere, per la paura che ci tolgano spazi già ristretti, ed ecco che dilaga l’aggressività cavalcata anche dai populisti del tanto peggio tanto meglio. E tutti sono contro tutti. E questo scontro ha per campo di battaglia i social network, che si chiamino Facebook o Twitter, la realtà non cambia: una società virtuale dove confrontarsi non sul piano dialettico, ma su quello dell’insulto e di chi la spara più grossa o che aggredisce più efficacemente l’altro. E così uno strumento che era nato come straordinario motore di conoscenze e amicizie e che ci ha permesso di ritrovare e dialogare con amici lontani, ha finito per ridursi a sfogatoio collettivo per frustrati e nullafacenti con licenza di insulto. È diventato il luogo della «raccapricciante congerie di insoddisfazione, aggressività, invidia, malcontento, indignazione, livore, rancore, odio e propensione all’invettiva indiscriminata», come l’ha descritta qualcuno. Dell’aggressione degli sconfitti contro i vincitori, non accettando l’alternanza democratica al potere. E questo ha permesso ad un altro clown dopo Berlusconi, a quel Beppe Grillo attore di diventare un leader politico, che utilizza la rete come un Grande Fratello per indottrinare i suoi, rilanciando nelle piazze filippiche urlanti che, anziché unire per crescere, finiscono per dividere e distruggere. Una situazione devastante mentre viviamo una crisi personale, sociale ed economica, nella quale la Germania combatte la sua terza guerra mondiale con le armi dell’economia, molto più potenti di quelle militari, perché riducono popolazioni intere allo stato di servitù legata alla dipendenza economica. La crisi è quindi non solo economica e sociale, ma soprattutto politica. E torniamo alla gente che oggi assiste impotente alle campagne di odio reciproche, motivate dall’incapacità di produrre argomentazioni su cui confrontarsi e soprattutto dal coraggio di parlarsi in faccia, preferendo nascondersi vilmente dietro una tastiera di computer per aggredire e dileggiare l’altro sul social network e condividere l’insulto con altri che lo moltiplicano a dismisura. «Nell’inverno del nostro scontento » (prendiamo a prestito il significativo titolo di un famoso libro di John Steinbeck), in una società di corrotti, dove l’illecito sembra essere diventato una regola, soprattutto ad alti livelli, a quei livelli politici che dovrebbero essere un esempio e un modello, ma che con le loro pratiche di disonestà e corruzione finiscono per essere la regola, la gente perde fiducia e generalizza, considerando i politici tutti uguali. E questo giova ai disonesti, non agli onesti. E qui ci piace concludere citando un brano di un significativo articolo di Italo Calvino su Repubblica del marzo del 1980 dal significativo titolo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, nel quale «tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile».

Autore: Felice de Santis
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