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Jole de Pinto: La bambina cresce
15 marzo 2010

Moderna e sicura avanzi / nel rispetto delle norme, / con lo sguardo fermo / e la bocca architettata / per governare i fi li dei sorrisi. È l’immagine di Jole de Pinto, icasticamente racchiusa nei sorrisi “che si affacciano appena” per poi serrarsi “pensosi”, offerta da un componimento di Vittore Fiore intitolato Ritratto di Jole. Questi versi possono leggersi, unitamente a un’epigrafe di Paracelso sull’indissolubile legame tra conoscenza e amore, e accanto a una lirica dell’autrice stessa tratta da Dichterliebe, in apertura del bel volume La bambina cresce di Jole de Pinto, edito nel 2008 per i tipi della Nuova Mezzina. Sequel di Una bambina, dedicato alla rievocazione dell’infanzia di Jole, il libello in questione si confi gura quale esempio di scrittura autobiografi ca non programmaticamente fi nalizzata alla letterarietà (pure evidente negli esiti linguistici ed estetici), ma intesa quale assunzione di consapevolezza. La bambina cresce diviene così libro della memoria, che occhieggia a Dante nella struttura prosimetrica. La prima immagine che la prosa restituisce è quella dell’io narrante che studia al balcone, ma, pur immerso nelle letture, non disdegna, a tratti, l’osservazione di ciò che accade in strada. La fugace comparsa di un anonimo corteggiatore risveglia nella psiche il ricordo delle eleganti strategie adottate, con successo, dal padre di Jole per conquistare quella che sarebbe diventata sua moglie. Scatta così, come recita un’omonima poesia della de Pinto, “l’ora di dentro”, quella in cui la scrittrice arranca lungo i sentieri “ghiaiosi” della memoria e “trova ossidati nelle stagioni / i trenta denari della felicità”. Introspezione anamnestica e volontà di restituire la “Weltanschauung” di un’epoca (gli anni cinquanta-sessanta) convivono in La bambina cresce. La caparbietà dell’io narrante, “rosa non priva di spine” (come sarà defi nita), rappresenta uno dei Leitmotive del racconto. Il desiderio di vittoria (in greco “nìke”) sembra insinuarsi già nel nomen omen della de Pinto: “Nicoletta”. L’autrice ingaggerà nella propria giovinezza numerose sfi de, tese a vincere se stessa, le proprie remore, i propri limiti (emblematico l’episodio del disegno alle pp. 20-1). Questa coriacea scorza di lottatrice sembra presto incrinarsi nel corso della narrazione; si squadernano inusitate fragilità e un disperato bisogno d’amore induce la protagonista ad abbarbicarsi agli affetti come farebbe una bimba desiderosa di protezione. Resta memorabile l’icona del padre elegante e amorevole: uno dei momenti più intensi del volume è quello che associa il ricordo della furtiva abitudine dell’uomo di scrutare il sonno delle proprie fi glie alla rievocazione dell’istante, struggente, in cui Jole “in un estremo passaggio di appartenenze” è testimone del dolce spegnersi del babbo, del suo abbandonarsi a un sonno che si confi gura quale viaggio e volo al contempo. Il volume è ricco di spunti di rifl essione sui mille rivoli che può percorrere l’attività didattica. Jole denuncia gli eccessi dell’autoritarismo bieco e per nulla autorevole da alcuni docenti messo in atto durante gli anni della sua istruzione secondaria e segnala alcuni tra i suoi punti di riferimento sotto il profi lo educativo: don Milani, Spock... Rivivono le ingenue epifanie di un anelito di sfi da all’autorità, che si traduceva (nella scuola degli anni rievocati da Jole) in velleitarie fughe dalle aule o in dissacranti litanie, le quali fungevano da naturale rimedio contro una didattica noiogena. Affi orano, come in sogno, l’immagine severa, ma acuta del Preside Sasso; quella, sofi sticata ed estremamente decorosa, di Augusta Baldo Mastropasqua... La bambina cresce è anche una deliziosa “novella” corale, in cui si staglia nitido il ritratto di una Molfetta dell’“orgoglio e pregiudizio”, sì, ma anche cittadina d’estremo decoro e d’innegabile dignità. In essa si manifestavano i segnali di una ben più che presessantottina tensione giovanile all’impegno civile (cogente in tal senso il riferimento ai fatti d’Ungheria). Negli anni che Jole rievoca, il gioco dell’amore si dispiegava con pudore, in una temperie di diffusa pruderie, che, se opponeva vincoli alla libertà individuale, conferiva ai sospiri di desiderio un’aura di sommesso mistero. Mi riferisco alla scena degli esercizi ginnici nella palestra scoperta, con i ragazzi a spiare dalle fi nestre evoluzioni e corse delle compagne, nella speranza di intravedere qualcosellina di proibito. O magari potrei citare i pomeriggi danzanti spacciati ai genitori intransigenti per improbabili sedute di cooperative learning. Tra botticelliane mascherate e pellicce di puma che assurgono a status symbol, ammiccamenti adolescenziali a un Gassman adone che innesca il ricordo di altri più sfortunati adoni (quelli dell’Andrea Doria), fra compari d’anello e ridanciani domestici incidenti (il vino che si tramuta poco magicamente in olio, complice un improvviso black-out), il temp jadis rivive sull’onda della “piena del cuore”. Una piena che, si intuisce, non di rado è approdata in porti indesiderati, lasciandosi alle spalle il dolore di una giovinezza forse mai pienamente dischiusasi al sole, perché immolata sull’ara della sete di conoscenza. Forse il libro è tutto nell’immagine poetica e sbarazzina di un’adolescente, non più bambina non ancora donna, che corre perché il cancello del Liceo non si chiuda davanti a lei. La stessa adolescente che, divenuta a sua volta insegnante e madre, ripercorrendo nel 2008 i sentieri della gioventù, identifi cherà, non a caso, nella corsa di resistenza una sorta di correlativo oggettivo della sua dimensione psicologica.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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