Iprite, colpevoli silenzi
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Il mare di Molfetta cela altri segreti, più pericolosi della presenza a Torre Gavetone di munizioni, bombe ed altri ordigni.
A circa 40 miglia a nord-est dal nostro porto, a 140/150 metri di profondità, giace un carico di bombe all'iprite. I marinai molfettesi conoscono bene il punto e hanno imparato, anche a prezzo della vita, a girarvi alla larga. Tuttavia incidenti si sono susseguiti per anni, con conseguenze su cui solo oggi si comincia a far luce.
L'iprite, solfuro betadicloroetilico, prende il nome dalla città francese di Ypres dove venne sperimentata per la prima volta durante la prima guerra mondiale. Gli inglesi durante l'ultima guerra la chiamavano Sulfur Mustard “gas mostarda”. E un liquido oleoso, irritante e vescicante, assai tossico e soffocante: a contatto con la pelle provoca ustioni, forti disturbi visivi e danni alle vie respiratorie, fino alla morte. Altra particolarità della sostanza è la grande persistenza sugli oggetti e negli ambienti contaminati.
Durante il bombardamento del porto di Bari, il 2 dicembre 1943, la nave americana John Harvey, carica di 100 tonnellate di bombe di iprite, venne colpita. I morti civili (probabilmente mille) furono dovuti non solo alle esplosioni e agli incendi, ma in gran numero anche alla diffusione di questo aggressivo chimico, che nessuno allora conosceva e contro il quale non si intrapresero cure adeguate e tempestive. L'iprite era proibita dalle convenzioni internazionali, ma era posseduta da entrambi gli schieramenti e, secondo lo storico Vito Antonio Leuzzi, prodotta anche in Puglia. Sulla vicenda cadde una pesante coltre di silenzio: gli Alleati preferirono non far sapere che disponevano di armi illegali.
Il carico dei veleni dirottato a Molfetta
Quel bombardamento finì per interessare anche Molfetta.
Dopo l'armistizio, presso la nostra Capitaneria di porto, allora chiamata “Ufficio circondariale marittimo” e diretta dal comandante Luigi Fidanzia, era stata costituita una Port Securety, sotto il comando del maresciallo inglese Smith, di cui faceva parte anche l'allora sottufficiale Salvatore Farinato, che ricorda: “Nell'estate 1944 alla Port Securety giunsero in gran segretezza alcuni ufficiali della marina inglese. Spiegarono al maresciallo Smith che il porto di Molfetta era stato prescelto per disfarsi di un certo quantitativo di bombe all'iprite, provenienti da Bari, probabilmente dalla stessa John Harvey”.
Per salvaguardare la pesca proposero di utilizzare come “discarica” la cosiddetta “Fossa adriatica”, una depressione marina profonda un migliaio di metri. Si riteneva che lì le bombe sarebbero state seppellite per sempre. Arrivarono autocarri militari carichi di questo misterioso materiale che fu imbarcato su alcuni motovelieri, della ditta Cogena, requisiti per l'occasione e pagati proporzionalmente alle quantità trasportate. Ma per risparmiare carburante e fatica, probabilmente neanche a conoscenza della pericolosità di quanto trasferivano, questi si liberarono però molto rapidamente del carico, così che, a circa quaranta miglia nord-est dal porto di Molfetta, tutto venne affidato al segreto delle profondità marine.
Alla ripresa delle attività di pesca gli incidenti cominciarono a succedersi. Nessuno era a conoscenza del contenuto delle casse di ferro che rimanevano impigliate nelle reti e che accidentalmente si rompevano nello sbattere sulla coperta o che venivano aperte intenzionalmente nella speranza che contenessero materiale recuperabile.
I marinai impararono comunque presto a temerle. Cesare Giancaspro ne porta addosso ancora i segni: “Ero giovane allora. L'iprite mi ricoprì le mani e le braccia di bruciature, ma soprattutto mi colpì gli occhi, tanto che da allora continuo ad averli arrossati e brucianti” Salvatore Farinato racconta che “verso il '47 il capitano di un mio motopeschereccio morì, proprio per aver inalato iprite”.
Morti e ustionati
Per Ignazio Salvemini “furono cinque in totale i morti causati dalle esalazioni di iprite”. Ma anche quando la morte era fortunatamente evitata si verificavano ustioni o periodi di cecità che potevano protrarsi fino a due mesi. Ancora Ignazio Salvemini racconta che “mio fratello, a bordo di un motopeschereccio con altre nove persone, incappò in una di queste bombe. Tutti furono contaminati e accecati dall'iprite, tanto che tornarono in porto fortunosamente, affidandosi all'istinto di sopravvivenza e alla consuetudine ai fondali. Solo il motorista fu parzialmente risparmiato, perlomeno dalle ustioni, grazie
alla protezione del grasso dei motori con cui armeggiava. Grasso che da allora fu usato come barriera difensiva nel caso di ritrovamenti.
Mio fratello rimase in ospedale per un mese, prima di riacquistare totalmente la vista. Di quell'equipaggio, tranne lui, ora non rimane nessuno in vita”.
Un episodio simile accadde anche ad un'altra imbarcazione, su cui erano imbarcati i nipoti di Salvatore Farinato, anch'essi rientrati fortunosamente in porto temporaneamente ciechi.
Indicazioni precise i pescatori non ne ebbero da nessuno, neanche dai medici che curarono i primi feriti, e che erano stupiti da queste strane patologie. I marinai dovettero imparare da soli e con l'esperienza a difendersi, ungendosi di grasso o comunque coprendosi in caso di fuoriuscita di gas, mettendo l'imbarcazione con la prua al vento e ponendosi sopravento per non respirare le esalazioni.
Una zona da evitare
La precauzione più semplice era quella di stare lontani dal punto incriminato. Ma è capitato che per ansia di guadagno, visto che il punto era ricco di pesce, alcuni motopescherecci si siano avvicinati, magari tirando su le casse contenente iprite e disfacendosene in altri posti. Altre si saranno spostate a causa del gioco delle correnti o di altri fenomeni marini. Certo è che, pure se sporadicamente, contaminazioni da iprite hanno continuato ad esserci anche negli ultimi anni. Vi sarebbero stati nel 1994 quattro casi, oltre ad altri probabilmente non denunciati dai pescatori per evitare fastidi con il sequestro delle reti e del pescato.
Oltre all'iprite i marinai molfettesi si sono spesso imbattuti anche in bombe al fosforo, che si incendiano a contatto con l'aria, probabilmente scaricate nell'Adriatico dagli inglesi, insieme a chissà cos'altro.
A breve si dovrà procedere alla bonifica del tratto di spiaggia di Torre Gavetone, che in parte ha già restituito, in parte custodisce ancora, migliaia e migliaia di ordigni bellici, carichi di polvere esplosiva. Mentre nessuno pare interessato a recuperare l'iprite e agli altri aggressivi chimici che giacciono a così breve distanza dal nostro porto.
Che conseguenze può aver avuto sulla nostra salute questo mix di veleni? Nessuno lo sa con precisione. L'unico dato certo è che reduci americani e inglesi, contaminati da iprite o durante il bombardamento del porto di Bari o intenzionalmente, nel corso di esperimenti per testarne le potenzialità, ammalatisi quasi tutti di cancro e leucemia, hanno chiesto che venga condotto uno studio sulla popolazione di Bari e provincia per provare il nesso causale fra iprite e queste malattie. Il governo inglese si è però appellato al segreto di Stato per negare chiarimenti e risposte, quello italiano non ha mai neanche avviato un'indagine e non pare intenzionato a operazioni di recupero. Qua1 è stata l'incidenza di queste malattie sulla popolazione molfettese in questi ultimi anni? Nessuno è in grado di dirlo.
È possibile una bonifica?
Un gruppo di lavoro a questo proposito si è da poco formato attorno al dott. Giorgio Assennato, docente di Medicina del Lavoro presso l'Università di Bari. I risultati di questa ricerca, che si presenta lunga e laboriosa, anche perché molti documenti del tempo sono stati intenzionalmente distrutti per mantenere il segreto su questa oscura vicenda, non si sa quando saranno resi noti. Intanto, per respirare aria fresca, continueremo a fare le nostre passeggiate sul porto nelle torride sere d'estate, ci nutriremo orgogliosamente del pesce pescato nel nostro mare, faremo il bagno in acque che non ci sembrano poi così sporche.
Teniamo scrupolosamente puliti noi stessi e le nostre case, ma fuori cosa succede? Aria, acqua, terra, fuoco, non si ribelleranno infine gli elementi naturali così maltrattati da una guerra che pare non ancora finita?
Lella Salvemini
18.3.1995