Quindici approfondisce con il dott. Guglielmo Facchini, esperto della materia, le operazioni di inabissamento degli ordigni a Molfetta tra il 1943 e il 1945, dopo la tragedia del 2 dicembre 1943 al porto di Bari (aff ondamento di 17 navi angloamericane, tra cui la John Harvey carica di bombe a iprite). Sul numero di luglio-agosto, il dott. Facchini aveva delineato un quadro generale, illustrando anche i sintomi da contatto con sostanze chimiche, come iprite. Proprio quest’estate una ragazza, ustionata al cuoio capelluto dopo aver fatto il bagno, è stata ricoverata al reparto di dermatologia di un nosocomio viciniore (la paziente non vuole divulgare nulla sull’accaduto perché teme si possa risalire alla sua identità). Caso sospetto di contatto a iprite? «Non ho visto le foto, ma ritengo che con quelle ustioni e vescicanti la causa possa essere rintracciata nel contatto con sostanze chimiche - ha spiegato il dott. Facchini - nonostante si parli di cause sconosciute o di natura da identifi care». Dott. Facchini, quali sono stati i siti di Molfetta adibiti allo scarico degli ordigni? «Cala San Giacomo è stato il più importante. Ancora oggi sul lato sinistro della cala, ponendosi di fronte al mare, è possibile individuare i resti di due muri che reggevano la rampa di carico, presenti anche sul catasto del demanio al foglio 4 particella 392. Sulla piattaforma era innalzata la gru metallica con cui erano caricate su navi e motopesca le bombe a caricamento speciale e convenzionale e numerosi fusti da 100 o 200 chili l’uno che contenevano sostanze chimiche, come cianuro, acido solforico, arsenico, lewisite, adamsite, fosforo bianco e soprattutto iprite. Altri siti erano la Prima Cala, Torre Gavetone e la Terza Cala, ma non sono rimaste testimonianze architettoniche o catastali, perché si trattava di rampe metalliche smontabili al termine delle operazioni. In passato si raccomandava ai bambini di non fare il bagno a Torre Gavetone e alla Prima Cala, siti interdetti ai bagnanti con i divieti di balneazione, prima scomparsi e recentemente ricomparsi». Le operazioni di carico e inabissamento erano dirette dal comando angloamericano allestito a Villa Emma. «Certo, Villa Emma, in contrada Lago Tammone, era a 500 metri di distanza da Cala San Giacomo. Appena andati via i tedeschi che avevano qui il loro comando di zona, gli alleati ne presero subito possesso e spianarono intorno alla struttura un ettaro, ricoprendolo di stabilizzante per creare un parcheggio di auto e gip. Inoltre, prima della fi ne della Seconda Guerra Mondiale, si verifi cò l’ultimo incidente misterioso e catastrofi co nel porto di Bari del 9 aprile 1945 in cui scoppiò la Charles Henderson carica di iprite. Alla fi ne delle operazioni di scarico nel 1946, gli angloamericani riportarono allo stato originale la struttura e l’area circostante prima di andar via. La villa fu restaurata e restituita intatta e allo stato originale ai proprietari, ma fu saccheggiata dagli stessi molfettesi appena andati via gli alleati. Per le operazioni di carico e inabissamento, l’agro di Molfetta e parte dell’agro dei comuni limitrofi furono utilizzati come depositi a cielo aperto. Insomma, centinaia di ettari erano ricoperti di bombe». Dott. Facchini cos’è stato scaricato sul fondo di Cala San Giacomo? «Innanzitutto bossoli di proiettile, come testimoniato da coloro che da giovani all’epoca parteciparono alle operazioni. Io stesso ricordo che quand’ero piccolo, durante le mie immersioni, rinvenivo sul fondale proprio i bossoli. Poco fuori, invece, erano scaricate le bombe. Altro sito obbligatorio dove erano inabissati fusti, mine e bombe, anche di piccolo calibro, ma a caricamento speciale, con fosforo bianco e iprite, era all’imboccatura del porto, proprio dove dovrebbe essere realizzato, se mai sarà possibile, il nuovo porto commerciale». Quanto durarono le operazioni di inabissamento? «Al dicembre del 1943 risale il primo inabissamento di quanto non era esploso a Bari, e le operazioni furono secretate per ordine di Winston Churchill. Dal 1945 al 1946 una volta fi - nita la guerra, furono assoldate 270 navi-battelli, tra cui molti pescherecci di Molfetta per scaricare in mare gli ordigni ritenuti obsoleti dalle forze militari angloamericane». Però grandi quantità di ordigni non sono stati inabissati nei siti predefi niti, i punti A, B, C, D della cosiddetta “zona delle munizioni”. «Le coordinate precise dei quattro punti della “zona delle munizioni” sono contenute negli archivi militari di Londra, prima pubblicate, poi risecretate. Sono a largo della costa molfettese, a 450 e 650 metri di profondità, ma le bombe camminano per le correnti o le reti a strascico. Del resto, i marinari non le inabissavano nei siti prefi ssati, ma, pagati a viaggio, dopo un miglio cambiavano rotta, avanzavano parallele alla costa verso nord o verso sud, scaricavano dove capitava e tornavano indietro per eff ettuare un nuovo carico. Perciò, il nucleo SDAI della Marina Militare ha individuato sul fondale della zona antistante Molfetta e persino sottocosta numerose bombe, disseminate anche con una certa regolarità a linea retta, secondo la rotta delle imbarcazioni. Infatti, molti ordigni si trovano anche a nord di Molfetta, nonostante le correnti marine del litorale italiano adriatico siano da nord a sud». Dott. Facchini, ci sono testimonianze per l’incidente del 2 dicembre 1943 o per le operazioni svolte a Molfetta? «Nel primo caso, le testimonianze dei ragazzi dell’epoca sopravvissuti e che ora hanno 70-80 anni, mentre per Molfetta è importante una lettera del 29 febbraio 1960, indirizzata al sindaco dell’epoca (Nicola Maggialetti, ndr) e scritta a mano da Primo Giuseppe di Pietro, operaio che aveva partecipato alle operazioni di carico e scarico a Molfetta». Cosa si legge nella testimonianza? « L ’ o p e r a - io, tornato dalla prigionia, per mancanza di lavoro, fu assunto dalla ditta inglese di Bitonto, la I.O.O., con mansioni di carico e scarico delle munizioni non buone che, caricate su di un camion, erano portate a Molfetta per l’inabissamento. E, come zona di scarico, individua l’imboccatura del porto di Molfetta, proprio dove ora si stanno svolgendo le operazioni di bonifi ca, a ridosso della diga foranea. Qui sono state scaricate bombe di tonnellaggio e calibro più grosso rispetto a Cala San Giacomo, reperite dal Nucleo SDAI della Marina Militare e fatte poi esplodere nella cava di Corato». Dunque, le autorità portuali e, soprattutto, politiche erano e sono a conoscenza sia di questa missiva, sia del suo contenuto, ma hanno fatto orecchie da mercante. «Tutti ne erano a conoscenza tranne, a quanto pare, il sindaco Antonio Azzollini, chissà per quale motivo. O forse, conoscendola, ha voluto consapevolmente ignorarla». Nel 2008, in tutta fretta, il sindaco Azzollini ha varato la costruzione del nuovo porto commerciale a Molfetta, nonostante i dubbi manifestati nelle sedi politiche, associative e istituzionali non solo per la presenza degli ordigni bellici sul fondale, ma anche per il progetto esecutivo. «Infatti, il progetto esecutivo del porto è tutto da rivedere. Ad esempio, la progettazione del molo esterno è completamente sbagliata, perché proprio da quella zona il porto imbarca acqua e le forti correnti non riescono più a uscire dall’area portuale. È sbagliata l’angolatura. Eppure, la marineria molfettese, anziani e giovani, da quattro generazioni sa perfettamente come dov’essere costruito il porto e in particolare quel molo. Tutte le progettazioni proposte negli anni trenta, quaranta e cinquanta e negli anni successivi dal Comune e dai cantieri navali privati di Molfetta non hanno fatto questo errore». Come mai questo tipo di errore? «Bisogna chiedersi se sia eff ettivamente un errore o piuttosto un dolo, se i progettisti ne erano a conoscenza, il perché delle varianti proposte che non correggono nulla di essenziale, anziché proporre la modifi ca vera del fallo gravissimo di quel molo, come mai nessuno abbia considerato la lettera di Primo Giuseppe e, dunque, la presenza degli ordigni bellici sul fondale del porto. Ma forse è una questione che andrebbe discussa in altra sede».
Autore: Marcello la Forgia