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I danni dell'aria condizionata in ospedale
15 dicembre 2009

La mia seconda questione limita il campo d’osservazione a quello sanitario, esattamente l’ospedaliero. Anche questo non è solo un nostro “male”, ma comincio dal più vicino a me, di cui posso parlare con esatta cognizione. Nella stagione calda s’usa anche nelle stanze d’ospedale refrigerare gli ambienti con quelle non esattamente salutari e virus-immuni macchine del fresco (e del freddo) e, chiuse le finestre, si preferisce quell’aria sospetta a quella naturale ed ossigenata, che sale da giardini e pinete. Ognuno è signore incontestabile della scelta dell’aria più gradita, è vero, ma a condizione che non sia soppresso il diritto d’ogni altro degente. Invece il condizionatore (d’aria e persone) è centralizzato nei singoli reparti sì, che le camerate debbano subire la decisione di chi attiva la macchina del fresco. Che scelta ha il degente, che non ne desidera l’uso o/e ne riceve danni? Non so se sia impiantabile (perché no?) in ospedale il condizionatore individuale degli aeroplani, tuttavia, se ne esistesse stanza per stanza uno a comando decentrato, ogni camerata potrebbe alternare la refrigerazione e l’opportuna pausa sì, da rispettare il diritto di ciascuno. Una notte capitò in un reparto un accidentato, che s’opinava grave e non lo era, ma a suo servizio fu attivato dalle ore tre fino a mattino inoltrato il refrigeratore: la corrente fredda cadeva s’un letto, il cui occupante dovette in estate ricorrere ad una coperta di lana e subire una flogosi velare. Sempre in ospedale (il nostro) è stato rilevato qualche errore d’assistenza e terapeusi. Io proporrei che sia riconosciuto ad ogni paziente il diritto di conoscere preliminarmente (nome, aspetto, forma) i singoli farmaci somministrati dagl’infermieri e di costatare de visu la rispondenza della singola medicina alla lista terapeutica, formulata dai medici, data in stampa e spiegata al singolo degente. All’assenza della detta lista s’aggiunge al paziente un altro handicap: la compressa o capsula nude o contenute negli alveoli, tagliati dai blister e da cui non si desume il nome, non sono individuabili e controllabili da lui. Un po’ meglio funzionano flaconi o sacchetti per fleboclisi, perché a volte v’è scritto con pennarello indelebile il contenuto e la destinazione; meno frequentemente sulle siringhe predisposte per un’ordinaria iniezione in muscolo o in vena. Più riconoscibili dalle siringhette sono gl’iniettandi sottocutanei. La sicurezza esigerebbe che la nota di riconoscimento sull’involucro della soluzione sia scritta direttamente dall’équipe medica. Un caso molto recente (giugno 2009) ha registrato in quattro giorni su nove una confusione di destinazione dei farmaci a - possibile - danno d’uno stesso degente. Infermieri incompetenti? Anche, se pensiamo che nella società di difficile inserimento nel lavoro un giovane sia costretto a svolgerne uno, cui non sia idoneo e non si adatti: o quello o la fame. La cosiddetta questione giovanile, che agitano governo, partiti, sindacati e chiesa, è un paramento menzognero, perché nessuno, né stato né chiesa, attenti al proprio vantaggio, vogliono risolverla: infatti, escluse poche eccezioni, solo per disperazione d’impiego i giovani possono entrare in seminario e nei corpi militari (or che la leva e la possibile “firma” non esistono più). Una premessa generale sul concetto di lavoro nel sud. Non è un caso che qui al semplice vocabolo “lavoro” sia sempre stata preferita (e l’uso è divento nazionale) la perifrasi “posto di lavoro”. Delle due parole-concetti la prima assume dimensione cubitale e sopraffà l’altra, sicché l’ “occupato”, avuto il “posto”, poco s’è curato e si cura del “lavoro”. Malcostume implacabilmente estirpando dal ministro Brunetta, un meritevole nell’ “armata brancaleone” al potere, in un paese dall’ampio, dominante “laisser faire”. Il berlusconismo ha reso generale l’incuria di quel che si fa nel “posto di lavoro”. A parte la questione della formazione e della professionalità, l’attenzione, che si presta all’opera svolta nel “posto”, è poca o minima. Il “grande fratello”, che presiede al governo, è un modello d’un sol tipo d’attenzione: quella al proprio privato interesse. Perciò in quel caso di mal’attenzione o distrazione infermieristica nel nostro ospedale (dedicato a Monsignor Bello dall’amministrazione, che “non sapeva quello che faceva” e di cui tutto si può predicare, tranne uno spirito “dontoniniano”, neppure di tipo teatrale: un’emozione ad uno spettacolo - il “dontoninismo” tuttavia non è un’emozione, bensì un modo d’essere e d’agire) possono entrare l’antico endemico male del posto e del non-lavoro, il nuovo, pur endemico, dell’egoistica “perseità” berlusconica, bramosa di potere e d’agio personali; ma anche la distrazione pura, in buona fede, d’una persona affaticata per qualsiasi causa. Nel caso delle tre confusioni di destinazione d’una terapia (una volta, un’infusione in vena, già iniziata), in quattro giorni (rilevate dall’allerta vigile del curando dopo cinque giorni di ricovero) posso opinare essere entrate tutte le tre forme di distrazione professionale. Volgo perciò un appello alla direttrice sanitaria, la dott.ssa Altomare, la cui amicizia e stima (forse anche affetto) m’onorano oltre il merito, e al dirigente amministrativo: per la chiarezza d’informazione del paziente e la possibilità per lui, ammesso a collaborare con gl’infermieri, di riconoscere i farmaci somministrati e verificarli su lista redatta dai medici ed a lui consegnata; per l’uso opportuno d’un refrigerante, che dev’essere soggetto al gradimento d’ogni ricoverato ed alla facoltà di rimuovere ogni possibile nocumento, senza coinvolgere tutto il reparto.

Autore: Antonio Balsamo
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