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Girolamo Minervini: la dignità della toga Ricordo di un giudice coraggioso
15 aprile 2003

Riportiamo un ricordo di Mauro Minervini, figlio del giudice molfettese assassinato dalle Br (ripreso dal sito “Giustizia e Carità”), che racconta il privato di un magistrato coraggioso e con grande senso del dovere "Giudicando che la felicità è nella libertà e la libertà è nel coraggio, non guardate con ansia al pericolo che vi recano i nemici" (Tucidite, Epitaffio di Pericle) "Fare la mia parte senza aspettare che gli altri facciano prima altrettanto è forse il più grande insegnamento che mi abbia impartito Girolamo Minervini"; sono queste parole che hanno indotto il Giudice Cicala ad insistere perché scrivessi una breve nota su mio Padre. Ed io, che a volte amo farmi pregare come Lui, ho ritenuto giusto accontentare chi, in fin dei conti, tanto gentilmente insiste per farmi cosa gradita. Girolamo Minervini, nato nel 1919, entrato in Magistratura nel 1943, ucciso dalle BR il 18 marzo 1980. Uomo del tutto particolare, schivo, modesto e nello stesso tempo consapevole delle proprie capacità. Uomo di sinistra e progressista vero, incapace di arrogarsi privilegi e predicare, nel contempo, libertà ed uguaglianza. Stretto collaboratore del Togliatti Guardasigilli si era pian piano allontanato dal PCI, rimanendo nei fatti svincolato da qualsiasi partito; era molto schivo e restio a far politica a parole, anzi a fare in genere parole inutili. Sia chiaro, non che fosse un musone taciturno, tutt'altro; era un pragmatico che amava teorizzare - e Dio sa quanto ne fosse capace - solo in vista ed in funzione di risultati pratici. Era capace di parlare bene e a lungo, ma se riteneva servisse a qualcosa. Il Suo senso dello Stato e del dovere nei confronti della Comunità erano profondissimi; l'impegno politico, quale ricerca del bene della Polis, bene culturale irrinunciabile. Dopo il turbolento periodo della controccupazione della facoltà di Giurisprudenza della "Sapienza" di Roma, rallentai per un breve periodo il mio vivace e, ora me ne rendo meglio conto, fisicamente pericoloso impegno politico di destra. Solo qualche anno fa mia madre mi ha narrato quanto Lui ne fosse rammaricato, temendo che intendessi disimpegnarmi da un interesse che mi aveva insegnato, con l'esempio, essere primario e qualificante. Del resto, non nascondeva una profonda ammirazione intellettuale per Giorgio Almirante; con grande scandalo dei manichei, alla cui schiera l'onestà intellettuale gli ha sempre impedito di appartenere. Con la religione aveva un rapporto stranissimo; raramente ho conosciuto un uomo capace di una così profonda, continua e spontanea coerenza con lo spirito essenziale del Cristo e nello stesso tempo così concettualmente laico; credo di non averlo mai visto imbarazzato e fuori posto come quando lo "costrinsi" a fare il padrino di mia figlia. Dotato di un humour vivacissimo amava scherzare, "sfottere" ed "essere sfottuto". I suoi vecchi amici, e lui stesso, mi raccontavano di scherzi da antologia. Delle tante ragazzate che, fortunatamente, ho avuto modo di fare non mi ha mai rimproverato che per dovere parentale. Era una di quelle persone abbastanza serie da non aver bisogno di prendersi sul serio più del minimo indispensabile. Era drasticamente interdetto a chiunque, salvo che alla piccolissima nipote a puro titolo di sfottò, chiamarlo Eccellenza; "giudice", diceva, è un termine che identifica una funzione di così grande rilevanza da non essere sostituibile. Del proprio ruolo era fierissimo; credo che tra i pochi veri dispiaceri che gli ho inflitto il più grande sia stato quello di essermi ritirato dal concorso in Magistratura. Però fu contento quando si accorse che in Banca, appena entrato, guadagnavo quasi quanto Lui, che portava (in teoria) l'ermellino. In famiglia, lo vedevamo poco. Aveva smesso da anni, per mancanza di tempo, di venire a caccia con me; usciva poco con mia madre, non aveva tempo per gli amici e - tanto meno - per i "salotti", che aborriva. Riusciva a trovare qualche minuto per la nipote e per l'anzianissimo padre, entrambi adorati. Il suo impegno quotidiano, o meglio i suoi numerosi contemporanei impegni, lo tenevano fuori casa 15 o 16 ore al giorno. In compenso, non gli rendevano una lira. Quando morì aveva una bella casa - di cooperativa, col mutuo ancora da pagare per un paio di lustri - un milione in banca ed una Wolksvagen degna di uno studente fuori corso. Ed un patrimonio, dentro, che spero di aver ereditato seppure in minima parte. Il 16 marzo 1980, di ritorno da Brescia, ove era stato per il trigesimo della morte di mio Nonno, mi venne a trovare. Meglio, venne a trovare, nell'ordine, la nipote Sara e me. Mi confermò che ormai la nomina a Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena era certa e che,in tal caso, lo era quasi altrettanto l'esecuzione della sentenza di morte da parte delle Br. Mi illustrò ove fosse la polizza assicurativa e quali fossero le provvidenze per mia Madre, alla quale mi chiese di stare vicino. Per l'ultima volta discutemmo della questione. Con toni molto pacati e tranquilli mi chiarì che "in guerra un Generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore" e che in fin dei conti non era lui tipo da morire d'influenza. Mi precisò che il carissimo Augusto Isgrò - Questore di Roma- aveva fortemente insistito per la scorta, ma che non intendeva far ammazzare tre o quattro poveri ragazzi. Poi, con un'incoerenza che ancora mi commuove, mi disse di essere preoccupato, dato il momento, per i rischi connessi al mio impegno sindacale in Cisal. A mia moglie diede affettuosamente sulla voce quando saltò fuori un cenno alla pena capitale. Credo di averlo mandato a quel paese. Lo rividi il giorno successivo, a pranzo. La sera mi comunicò che il Presidente del Consiglio, Cossiga, gli aveva definitivamente confermato la nomina a Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. La mattina del 18 marzo, in autobus e senza scorta, andò a fare la sua parte, senza chiedersi se l'avessero fatta anche gli altri. Sul volto, da morto, aveva l'espressione serena di sempre. Mauro Minervini
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