Giovani molfettesi in movimento il progetto Farfa
Durante la presentazione del progetto “Farfa” presso la Fabbrica di San Domenico, abbiamo incontrato Mimmo de Ceglia, uno dei due ideatori del progetto “Farfa” (vincitore del bando “Bollenti Spiriti”), responsabile del progetto, ma soprattutto, una mente molfettese in movimento per una scossa culturale. Abbiamo letto che lei è media- educator, docente di lettere, regista e sceneggiatore. Una cosa che ci ha incuriosito è quando lei dice: “ricerco le potenzialità formative insite nei mezzi mediatici”. Cosa le fa pensare che ci siano delle potenzialità formative nei mezzi mediatici e, in particolare, in cosa vedi queste potenzialità? «I luoghi comuni parlano solitamente del fatto che i media monopolizzano la comunicazione e fanno uscire una versione del mondo non oggettiva rispetto alla realtà. Tuttavia io sono cosciente del fatto che i media siano uno strumento, che nelle mani di chi ha un messaggio da esprimere diventino un forte mezzo di espressione di valori, e questo potrebbe essere usato anche nella formazione. Viviamo nella società dell’immagine e le immagini hanno un potere fortemente comunicativo ad ogni livello, e io perseguo questo fine un po’ utopistico, però credo che sia importante realizzarlo, ovvero riappropriarci dei mezzi di comunicazione e dei media». Abbiamo visto che ha collaborato con attori professionisti che hanno lavorato nel cinema e nel teatro. Nel suo cortometraggio “La libertà” sembra che negli attori lei abbia cercato una certa libertà dai canoni cinematografici e dagli standard attoriali. Come realizza il tuo rapporto con gli attori e cosa si aspetta da loro? «Nel caso di Ninni Vernola e Salvatore Marci, sono due attori che nel panorama locale e non solo, hanno potuto realizzare varie opere anche professionalmente valide, e questo rappresenta un’eccezione rispetto a quello che io faccio con gli attori. Solitamente non lavoro con attori professionisti ma il più possibile capaci di essere immediati e di calarsi in personaggi che potenzialmente potrebbero essere loro stessi. Cerco una sorta di spontaneità nella pratica attoriale, e spesso utilizzo la pratica dialettale, più funzionale a questa ricerca profonda dell’archetipo, più vicina alla pronuncia primaria dell’essere umano al di là di capacità attoriali che si possano acquisire con lo studio, e che secondo me omologano gli atteggiamenti degli attori e li rendono un po’ tutti uguali». Tra gli obiettivi che il progetto “Farfa” si propone, c’è “avvicinare la gente comune al mondo dei media”. I media sono visti come un mito, uno standard e un modello piuttosto lontano dal pubblico. Come pensa che sia possibile utilizzare uno strumento che la società rende un mito e un suo modello in una maniera diversa e più orizzontale? Non c’è rischio che il tuo lavoro diventi frutto di una ulteriore mitizzazione come avviene nel cinema più puramente commerciale? «La differenza è nel coinvolgimento di soggetti nuovi che si avvicinano per la prima volta al cinema, non solo come passivi spettatori ma vi partecipano attivamente, scrivendo storie, facendo gli attori, partecipando alla elaborazione, sperimentando modi diversi di lavorare in squadra. Questo ha secondo me una valenza civile e sociale notevole perché nella società attuale nessuno può contraddire il fatto che viviamo in un individualismo esasperato. Mettere in moto i meccanismi dello stare insieme, che non si propongono con fini di lucro, ma come qualcosa di slegato rispetto al mercato delle major mi sembra qualcosa di positivo e di non prostituente». Riguardo gli attori, so che c’è stata una selezione dei soggetti per il progetto “Farfa”. Come è avvenuta la selezione, non in termini puramente tecnici, ma dal punto di vista della risposta da parte della gente e degli aspiranti attori. Cosa si aspettava la gente dal progetto “Farfa”? «Subito abbiamo detto che questo non è uno studio volto a rendere famosi i partecipanti. Noi vogliamo sperimentare nuovi linguaggi, nuove forme di espressione, che non escludano nulla, tranne quella forma più meramente commerciale che fa dei media il mostro negativo che tutti conosciamo. La risposta delle scuole non è stata uniforme. Alcune non hanno compreso a pieno il progetto, a livello di docenti e presidi. Forse non siamo riusciti a spiegarla, forse ci sono ragioni legate ad altre contingenze. Questo progetto si propone di creare delle empatie con le istituzioni scolastiche di Molfetta, al fine di creare dei percorsi extra-curricurali e trasversali tra tutte le scuole, per sperimentare nuove modi per stare insieme. Gli alunni invece hanno risposto tutti in maniera abbastanza positiva ed entusiastica, in generale. Nel particolare, coloro che ci hanno dato un appoggio lo hanno fatto in maniera seria ed energica». Lei lavora e vive in Friuli. Ha pensato di realizzare qualcosa di simile anche nel luogo in cui vivi e quali pensi che potrebbero essere le differenze tra un lavoro simile svolto a Molfetta e uno svolto a Udine? «Ho realizzato dei laboratori di media-education a Udine, ho realizzato il corto “Skull & School” e ho lavorato con gli immigrati in un istituto. C’è stato un feedback molto positivo da parte degli alunni, anche da parte degli alunni più disagiati. Loro hanno mostrato di poter instaurare attraverso altri canali dei rapporti empatici molto positivi con le istituzioni scolastiche. Credo che non ci siano differenze relative alla geografia, ma piuttosto relative all’individuo singolo. A Bari vecchia, ad esempio, ho lavorato non con i ragazzi direttamente, ma con le mamme dei ragazzi, che a loro volta hanno coinvolto i ragazzi, nel corto “Come quando le nuvole”, realizzato con la pedagogista Maria Cavalluzzi, e presentato a Johannesburg d un summit mondiale sulla Democrazia e la Pace e al Festival Internazionale “Salento Finibus Terrae” in Salento a S.Vito dei Normanni».