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Francesco Padre la svolta. Nuova verità della Procura: presunta ritorsione serbo-montenegrina
15 novembre 2010
Presunta ritorsione montenegrina: nuova ipotesi per l’affondamento del Francesco Padre (3-4 novembre 1994), l’Ustica molfettese. Dopo l’archiviazione nel 1997, una svolta per i familiari dei marinai scomparsi, per la marineria e la città di Molfetta. Cancellare l’accusa di traffico di armi, ridare dignità ai 5 marittimi morti, come “Quindici” chiede da tempo: il comandante Giovanni Pansini, il motorista Luigi De Giglio, il pescatore Saverio Gadaleta, il capopesca Francesco Zaza, il marinaio Mario De Nicolo (solo quest’ultimo ritrovato in superficie il 4 novembre ’94 da un velivolo della Marina militare). Fino al 2010, la magistratura non ha mai acquisito i tracciati radar delle navi e dagli aerei che perlustravano l’Adriatico. Mai richieste al Pentagono le fotografie satellitari dell’affondamento o i rapporti delle unità da combattimento. Nessun giudice ha mai domandato alla National Security Agency copia delle registrazioni radio e telefoniche intercettate. Mai identificati i testimoni oculari dell’esplosione, i piloti del velivolo P3c Orion. Omicidio volontario, l’ipotesi di reato: chi ha sparato contro il Francesco Padre voleva uccidere, forse per eliminare testimoni scomodi. Esclusa anche l’ipotesi di un ennesimo veto statale, già posto dal Governo Berlusconi il 9 luglio 2009. Soluzione più vicina? La svolta: declassificati i documenti Nato Il 20 ottobre scorso, durante la conferenza stampa nella Procura di Trani, il dott. Carlo Maria Capristo, Procuratore capo, annunciava la notifica alla presidenza del Consiglio dei ministri di «una richiesta ufficiale per ottenere i documenti declassificati dell’operazione di embargo “Sharp Guard” per il Montenegro». Infatti, nell’area dell’affondamento stazionavano, oltre a un velivolo Usaf e alle corvette italiane Fenice e Sagittario, le unità da guerra Uss Yorktown, Hmcs Toronto, Sps Tramontana, Sps Baleares e altre non identificate. Riapertura delle indagini (febbraio 2010) accelerata anche dalle istanze dei legali delle parti offese, mai rassegnate alla verità ufficiale: deflagrazione interna per la presenza di esplosivi e armi, secondo l’archiviazione del ’97, che ha taciuto anche le perizie sul corpo del De Nicolo (ampia lesione a sinistra nel volto forse di proiettile, femore fratturato, traumatismo). I familiari hanno sempre sostenuto la tesi di un’esplosione esterna alla nave a causa di una bomba o siluro, perché nell’area attraversata dal peschereccio si svolgevano esercitazioni militari e azioni di guerra della Nato per il conflitto nei Balcani. Secondo l’ing. navale Francesco Mastropierro, componente della Commissione d’inchiesta della Direzione per i sinistri marittimi di Bari, «l’affondamento è stata una conseguenza diretta della deflagrazione di un ordigno esplosivo che si è venuto a trovare in corrispondenza della rete appena recuperata dal fondo». Maralfa, possibile ritorsione serbo-montenegrina Decisiva la rilettura giudiziaria dell’intervista del comandante Giovanni Pansini all’emittente televisiva Telemontecarlo, il 30 ottobre 1994. «Il comandante Pansini rivela che era in atto da parte di alcuni pescherecci di Molfetta e del basso Adriatico il trasbordo del pescato da navi montenegrine e serbe su pescherecci locali – riferisce il dott. Giovanni Maralfa, sostituto procuratore della Repubblica - venduto nei mercati locali come pesce pescato su navi nazionali e locali». Traffico illegale che non coinvolge il Francesco Padre, vittima innocente di una possibile ritorsione serbo-montenegrina per la denuncia pubblica del comandante Pansini, «che ha sempre rifiutato le tangenti Pari alla metà del pescato». Avanzata, dunque, una richiesta di rogatoria alle autorità serbe e montenegrine per ottenere possibili informazioni sull’affondamento, fidando in un dialogo meno omertoso. Pista militare, per ora nessuna informazione L’accordo bilaterale con gli USA sulla cooperazione giudiziaria, in vigore dal 2006, potrebbe consentire l’acquisizione di un atto militare importante per la ricostruzione dei fatti: «la documentazione dell’aereo pattugliatore che per primo avvistò il bagliore in mare e che provocò l’intervento della nave spagnola “Tramontana”, la prima sul luogo dell’affondamento». Dal tracciato radar, se esistente, si potrebbe apprezzare la scia di un eventuale siluro o bomba e capire se «l’esplosione andasse dall’esterno verso l’interno dell’imbarcazione, o fosse interna, come ipotizzato dalla prima indagine». Smentire, insomma, l’ipotesi della presenza a bordo di ordigni. «Continuiamo a indagare anche su questo di Marcello la Forgia
marcello.laforgia@quindici-molfetta.it
Francesco Padre Il teschiomazione ». Possibile un’ipotesi militare? Da non trascurare le congetture del giornalista Gianni Lannes nel libro «Nato: colpito e affondato. La tragedia insabbiata del Francesco Padre» (tratte dal rapporto classificato come «Nato Confidential», trasmesso l’11 novembre ’94 dal Comando Navale Nato allo Stato Maggiore della Marina italiana): gettate le reti a circa 20 miglia dalla costa montenegrina in direzione nord-est (zona di rilascio delle bombe Nato a partire dal 1992), il Francesco Padre sarebbe stato accerchiato da una dozzina di unità aeronavali da guerra Nato, poi bombardato perché scambiato per un motopesca che in quell’area silurava i sommergibili occidentali. Che i documenti oggi declassificati siano proprio questi? Il cerchio si stringe, ma i soggetti in causa potrebbero rappresentare uno scoglio insuperabile. 2011, recupero di relitto e resti umani? 4 milioni di euro, il costo supposto per il recupero del relitto e dei resti umani, quasi sempre ostacolato da varie autorità senza plausibile motivo (si ricordi l’opposizione del procuratore dott. Pasquale Drago). La Procura confida anche nell’impegno economico del Comune di Molfetta, come dichiarato dal sindaco Antonio Azzollini in una lettera ufficiale del marzo 2010. Preventivi al vaglio. La società Impresub, autrice del video del 1996, chiede 930mila euro solo per la video ripresa, preliminare al recupero del veicolo a 283 metri sotto il livello del mare, mentre 50mila euro giornalieri sono richiesti dalla Marina Militare (costi a carico del Ministero della Giustizia). «Un recupero determinante per la ricostruzione tecnica – la chiosa del dott. Maralfa – da attuarsi al più tardi nella primavera del 2011». Importante per ottenere precise indicazioni sull’esplosivo, perché l’indagine compiuta sui reperti riemersi trascina con sé dubbi e incertezze. Alessandro Massari e Giulio Vadalà, periti chimici della polizia scientifica, hanno individuato solo «tracce di tre esplosivi tipici di miscele per uso civile e due (tritolo e pentrite) che si trovano in composizioni per uso civile e militare», mentre per il prof. Giulio Russo Krauss, docente all’università di Napoli e all’Accademia navale di Livorno e consulente della Nato, «esistono chiare tracce di una dinamica di esplosione che ha agito dall’interno della nave verso l’esterno». Tesi contestata dall’ing. Guglielmo Mele, perito incaricato dalla compagnia assicuratrice dell’imbarcazione: l’imbarcazione non si è frantumata, della poppa sinistra gli unici reperti, nessun residuo metallico, da escludere dunque un eventuale trasporto di armi. Anche il dott. Domenico D’Ottavio, responsabile chimico in un’azienda che si occupa della demilitarizzazione di armamenti bellici, afferma che «la presenza delle sostanze esplosive trovate è compatibile con quelle utilizzate nei razzi e missili per uso bellico [perché] la nitrogligerina, l’etilenglicoledinitrato e anche il dinitrotoluene sono presenti nelle miscele di grani propellenti […] che servono a generare gas che spingono il razzo sul bersaglio, mentre il trinitrotoluene e la pentrite sono usati nelle cariche di scoppio che formano la testa di razzi o missili il cui effetto è quello di distruggere il bersaglio dopo averlo colpito ».
Autore:
Marcello la Forgia
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