Esiste solo la razza umana nello spettacolo “Once upon a time when pigs were swine” de “Il Carro dei Comici” e “Equilibrio Dinamico” a Molfetta
MOLFETTA - Il fondamentale ruolo della maschera assunto già nel teatro greco e nel teatro plautino si ritrova nella rappresentazione “Once upon a time when pigs were swine”, dove ad assumere una maschera, quella del maiale, sono stati i personaggi che hanno incarnato l’etnia nazista.
Regia di Marco Blazquez, interpretata da “Il Carro dei Comici” in collaborazione con la compagnia di danza “Equilibrio Dinamico”, lo spettacolo, cui gli studenti del Liceo Classico di Molfetta hanno assistito all’Auditorium “Regina Pacis”, ha fatto affidamento quasi totalmente sulle coreografie. Su una scenografia spoglia, come la vita dei deportati, è stata la voce narrante di Francesco Tammacco a commentare i movimenti esprimendone lo strazio, la paura, il risentimento.
Un uomo anziano, ex medico nazista, frugava tra i suoi ricordi. Sulla scrivania di tutto e di più: pagine di giornale, foto, lettere, tra cui il riferimento alla donna che anni prima aveva conquistato il suo cuore. Un flashback che ha abbracciato l’intero spettacolo: la vita tranquilla di un paesino come tanti, i meccanismi quotidiani che scaldavano il cuore degli abitanti. Sembrava una storia a lieto fine ed effettivamente sarebbe stato così se il tutto non fosse stato interrotto dall’arrivo dei nazisti.
Il brusco cambiamento dei movimenti, che da fluidi si sono fatti remissivi, ha segnato il discrimen tra la prima parte, il sereno passato, e la seconda, l’amaro futuro, quello di cui tanti ebrei, e non solo, sono state vittime nel ‘900. Assieme agli ebrei hanno sofferto le donne, gli omosessuali, i portatori di handicap, gli oppositori politici e tutti coloro che non appartenevano alla razza ariana.
Fortissima l’immagine del popolo soggiogato che non poteva più danzare liberamente, ma doveva sottomettersi al volere dei porci.
Ma il colpo di scena è stato il riconoscimento del protagonista: anche lui uno dei maiali, che nel corso del balletto ha gettato a terra la maschera, quasi a voler rinnegare il proprio arruolamento nell’esercito tedesco.
La forza è un potere, ma il protagonista, prima di entrare a far parte dell’esercito nazista, era stato conquistato da un potere più forte: quello dell’amore. L’amore per una donna ebrea, una passione incandescente fatta di movimenti sinuosi, frenata però dalla realtà incombente. Sulla scena sono tornati i maiali per mettere gli amanti di fronte alla storia e per far aprire gli occhi al nazista, il quale era in preda ad un amore impossibile, pregiudicato dalla sete di potere che sovente si trasforma in crudeltà allo stato puro.
Il ritmo si è fatto sempre più incalzante, i due amanti desiderosi di continuare a danzare sulle note del proprio sentimento non avevano speranza: i porci ostacolavano i loro movimenti in tutti i modi, cercavano di allontanarli e di far rinsavire il nazista.
Una pagina della storia orrenda, che purtroppo non si è limitata ad una sola pagina: a rinsavire avrebbero dovuto essere tutti quei maiali e non l’unico che si era reso conto che si trattasse di mera follia. La stessa che gli ha portato via la donna amata, stuprata davanti ai suoi occhi, uccisa di lì a poco chissà da quale morte cruenta; la stessa che ha impresso nella sua mente un ricordo purtroppo indelebile di quando il potere ha dovuto chiamare prima di ogni altra cosa, persino prima dell’umanità.
“Once upon a time when pigs were swine” non ha raccontato, tramite il linguaggio corporeo, solo una storia verosimile ambientata nel periodo nazista: ha portato un esempio mirato della violenza che ha mietuto vittime innocenti, deboli, ridotte alla miseria.
Una vicenda che ha letteralmente colpito, e affondato, due persone come tante, diverse ma unite, e insieme a loro miliardi di persone che ancora oggi, nel 2018, il 27 gennaio, ci si propone di commemorare. E non solo affinché l’Olocausto rimanga un passato sepolto ed irripetibile, ma anche affinché episodi di razzismo e discriminazione possano estinguersi di fronte alla concezione che non si può parlare di razze, ma di razza: quella umana.
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