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Edilizia, caccia all'area in centro per fare business La politica ha abdicato al suo ruolo di tutela dell'area urbana e i cittadini assistono impotenti al saccheggio della città
15 maggio 2005

Molfetta sta per cambiare volto. Anche se forse non ce ne rendiamo conto. Le gru, tanto invocate, si stagliano un po' ovunque, non solo nelle zone di espansione alla periferia della città, ma riempiendo ogni pezzo di suolo appetibile del centro, per un motivo o per l'altro sino ad ora non edificato. Con la corsa ad immettere su un mercato famelico appartamenti a prezzi sempre più alti. Anche se quelle aree hanno una loro storia o rappresentano una delle poche possibilità rimaste di non appesantire, e verrebbe da scrivere imbruttire, una città che già risulta perdente nel confronto con quelle limitrofe, che nemmeno il molfettese più sciovinista potrebbe definire “bella”. C'è un'area, divisa ed allo stesso unita dalla ferrovia, che pare più appetibile di tutti, caratterizzata da testimonianze di archeologia industriale, di un passato che non c'è più, quello dei cementifici Gallo e De Gennaro al di là della stazione e di “Pansini Legnami” al di qua. I capannoni di Via Baccarini stanno per essere abbattuti, come già scritto nel numero di febbraio di “Quindici”, gli unici nel panorama giornalistico molfettese a prendere subito a cuore la questione; nell'area così liberata si progetta la costruzione di 5 palazzine a 5 piani, di cui una destinata ad uso non abitativo, e di un autosilo privato, sempre di 5 piani. È quello che prevede il piano di comparto presentato dai proprietari dei suoli. Eppure il CUR, approvando il PRG, aveva invitato a riconoscere il valore storico-urbanistico della zona. Un invito che avrebbe dovuto essere preso sul serio dalla collettività e quindi dagli organi politici che la rappresentano. Insomma, sarebbe stata necessaria una valutazione seria di quel che poteva essere salvato e del come, magari una proposta di indirizzo da parte del Consiglio comunale a tutela dell'interesse collettivo, che non è solo quello di conservare una testimonianza del nostro passato, ma di riflettere su quel che potrà accadere in una zona già congestionata, quando si aggiungeranno 5 palazzine, di abitazioni ed attività commerciali. Senza trascurare la vicinanza con la stazione e con Corso Umberto. Nulla. Tutto è stato lasciato all'iniziativa dei privati che hanno presentato il piano di comparto per la zona. Per di più, a fronte di una legislazione del settore che prevede che ogni area che si costruisce debbano essere garantiti degli standard, cioè un'adeguata quota di verde pubblico, di parcheggi, di scuole, insomma di tutto quanto garantisca la vivibilità, il calcolo è stato fatto tenendo conto delle volumetrie destinate a civile abitazione, non degli edifici commerciali, che pure incidono notevolmente sul totale dei fabbricati. In ballo la diversa interpretazione delle norme relative. Ma non si tratta tanto di fare le pulci alla legittimità delle scelte dei progettisti, ma di chiedersi che fine abbia fatto la gestione pubblica in questa vicenda, che vale a dire, quale ruolo abbia svolto la politica. I proprietari dei suoli, consapevoli di avere avuto in eredità la classica gallina dalle uova d'oro, hanno cercato di sfruttarla al massimo, utilizzando lo strumento del comparto, spettava a chi governa, tutelare non solo i proprietari, ma tutti, a partire da coloro che già lì abitano, dare indicazioni precise dal punto di vista urbanistico. Evidentemente quello del "comparto" è un sistema che forse garantisce il rispetto degli interessi dei proprietari dei suoli. Ma non una visione generale della città. Visione generale che deve venire dalla politica. Tutta l'operazione potrà anche essere legittima, ma qualcuno dovrebbe pur spiegarci perché fra tante scelte, tutte ugualmente legittime, si è privilegiata quella più scontata - buttiamo giù tutto e facciamoci dei palazzi - ma anche più cieca, che privilegia solo i proprietari. Non si è provato neanche a discuterne, pure nella sede privilegiata per queste scelte, il Consiglio comunale, a pensare se gli edifici potevano essere salvati, magari con un intervento di risanamento che li destinasse ugualmente ad uffici e negozi, dando come contropartita ai proprietari la possibilità di sviluppare in periferia la volumetria cui hanno diritto. Non interessa riflettere su cosa sta diventando Molfetta, pochi guadagnano nell'immediato, molti perdono per il futuro. Perché una città intasata, in cui non si può circolare, senza verde, senza luoghi di aggregazione, alla fine non avvantaggia nessuno. Pare anche un ragionamento semplice, eppure è difficile persino da avviare. Il piano di comparto per l'area di “Pansini legnami” tornerà in Consiglio comunale per la definitiva approvazione, dopo che il solo comitato di quartiere ha provato a chiedere scelte diverse. Il complesso dell'ex cementificio Gallo è stato buttato giù qualche mese fa, in quel caso con il pretesto del pericolo di crollo, non si capisce perché diventato imminente dopo anni di abbandono esattamente il giorno prima che una riunione di Agenda 21 cominciasse a discutere del suo futuro. Come a mettere le mani avanti, una volta cancellati gli edifici storici, l'area si è resa libera per le costruzioni e non c'è più dibattito che abbia senso. Palazzine contro palazzine si fronteggeranno da una parte e l'altra della stazione, che nel frattempo si appresta a diventare, nella prospettiva dell'area metropolitana, il terminale diretto da e per Bari. Il cuore della città lasciato ai costruttori, per incuria, per effetto di una politica che ha smesso di pensare, di relazionarsi con la città reale. E forse anche per colpa di cittadini che, nella politica, hanno smesso di credere. Lella Salvemini lella.salvemini@quindici-molfetta.it
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