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Drammatica fine di due marittimi molfettesi Intossicati a bordo della loro nave. Ancora una tragedia per la città
15 aprile 2000

Ancora una tragedia in mare che ha coinvolto due marittimi molfettesi. La disgrazia è avvenuta a circa 230 miglia dalle coste portoghesi. I molfettesi, Pantaleo De Candia, 47 anni, Francesco Sciancalepore, 42 anni, oltre a Luigi Di Palma, 50 anni, di Monopoli, sono rimasti intossicati per un incidente a bordo della nave “Alderamine”, della compagnia Nolarma di Genova. Secondo una prima ricostruzione – sono in corso le indagini della magistratura - i tre marittimi, insieme ad un altro membro dell’equipaggio, in una pausa di lavoro, stavano ammazzando il tempo giocando a carte. Uno dei tre si sarebbe poi allontanato, forse per un controllo di routine al locale delle pompe oppure perché aveva avuto sentore di qualcosa che non andava. Dopo alcuni minuti, non vedendolo tornare, un altro marinaio è andato a cercarlo: probabilmente il locale era saturo di gas e così anche il secondo marinaio è rimasto vittima della velenosa sostanza. Stessa ipotesi per il terzo amico. Il quarto, invece, ha intuito la tragedia ha evitato di scendere nella sala pompe e si è salvato. Subito ha dato l’allarme, ma era già troppo tardi. Su questa tragedia che ripropone il problema della sicurezza in mare, riportiamo l’articolo del nostro Direttore, Felice de Sanctis, pubblicato sul quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”, che affronta il tema del rapporto fra i marittimi e la città. Un legame antico I marittimi sono per Molfetta come gli operai della Fiat per Torino. È un legame antico che ha radici storiche, culturali, ma soprattutto economiche con la città. I marittimi, insieme con i pescatori, sono stati i protagonisti dello sviluppo economico della città nel corso degli anni. Le rimesse degli «imbarcati» (come venivano definiti) hanno permesso, con quelle degli emigranti, la sopravvivenza prima e il benessere economico dopo, delle famiglie molfettesi. Ogni tragedia del mare i cittadini di questa città la vivono sulla propria pelle. Come per gli emigranti, anche per i marittimi si può ben dire che non c’è famiglia che non abbia un proprio parente sul mare. Una vita di sacrifici, di privazioni, di lontananza da casa, ma ripagata con una retribuzione elevata, ha permesso a tutti di avere una o più case di proprietà (alimentando anche la speculazione edilizia, favorita da alcuni politici). Questo avveniva in passato. Oggi non è più così: sono rimasti privazioni e sacrifici, ma il reddito si è ridotto sensibilmente e i marittimi preferiscono trovare un lavoro a terra (per lo più nel terziario, commercio in particolare). Tutta colpa della globalizzazione economica che ha portato alla parificazione delle retribuzioni fra impiegati e marittimi (il rapporto era di 1 a 3). Così l’elenco degli iscritti alla gente di mare supera le 9.500 unità, ma in realtà, tolti i circa 1.500 addetti alla pesca, restano solo 1.500 persone che navigano stabilmente. Il flusso di risorse finanziarie prodotto da questi 1.500 marittimi si aggira sugli 80-90 miliardi l’anno, un apporto rilevante per l’economia di una città di 65mila abitanti, le cui uniche attività produttive oltre alla pesca sono costituite dall’agricoltura (minima) e dal terziario, mentre negli ultimi anni sta crescendo (e lo sarà ancor più in futuro) l’attività di piccole e medie imprese che si stanno insediando nella zona industriale. «Negli anni ’60 - dice Angelo Patimo, segretario nazionale della Uil trasporti - l’enorme sviluppo edilizio della città, gestito da pseudo imprenditori abili a rastrellare risorse altrui per investirle, si fa per dire, fu determinato dai flussi per le rimesse dei marittimi, la cui occupazione registrava un dato quasi quadruplo rispetto a quello attuale e con alta redditività. A rendere poi meno appetibile quest’attività hanno contribuito la competizione internazionale, la globalizzazione, la presenza in questo mercato di un esasperato terzomondismo, con una professionalità in continuo sviluppo, ma sottopagata rispetto a quella dei paesi industrializzati, la caduta delle vocazioni ed infine le crisi ricorrenti dei noli, dovute all’uso politico della produzione energetica e allo sviluppo tecnologico». Si è determinata, perciò, una drastica selezione degli addetti, per cui oggi non esiste più disoccupazione nel settore anzi, per alcune qualifiche maggiormente professionalizzate, c’è un enorme squilibro tra la grande domanda e un’esigua offerta. Così sul mercato internazionale mancano ben 30mila ufficiali. Ma i giovani disertano l’istituto nautico, dove non si riesce a formare la prima classe, perché nessuno vuole più navigare. Le tragedie continue perfino nelle acque portuali (nella memoria collettiva resta incancellabile il ricordo dell’incidente a Livorno della Moby Prince, nel quale persero la vita 140 persone, fra cui 4 molfettesi) aumentano la paura e l’incertezza di un lavoro ormai in declino. Si perde così anche la secolare vocazione marinara della popolazione e il legame atavico che ha sempre legato il molfettese al mare. Sembra di sentire Conrad: «il mare non è stato mai amico dell’uomo; tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza». Felice de Sanctis
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