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Difetti e pregi dei pescatori molfettesi d’altri tempi
15 ottobre 2018

Nel suo viaggio nell’Italia peschereccia, compiuto nell’aprile del 1901, la rivista nazionale di pesca “Neptunia” col suo corrispondente Mundula fece tappa a Molfetta. E le dedicò ampio spazio. Dopo aver raccolto e fornito al lettore dei brevi cenni storici sulla città, si entra nel vivo della descrizione del carattere dominante incarnato dal pescatore del popolo devoto a San Corrado ed alla Madonna dei Martiri. Il racconto lo proietta subito (per farne capire il “valore”) con le “bilancelle che fanno sventolare il tricolore italiano lungo le coste dalmate, nei mari di Grecia e dell’Africa mediterranea”. Poi il notista si sofferma sull’aspetto sociale. “Intelligenti e colti i molfettesi considerano la classe dei pescatori come una razza a parte, ed il professore Salvemini, in un opuscolo socialista, non ha esitato a dichiararli insuscettibili di civilizzazione – scrive Mundula – il pescatore molfettese non ha nulla di comune col chioggiotto o con quello della costa sorrentina, non ha la poesia della laguna, non il costume caratteristico dei pescatori napoletani”. Quindi aggiunge particolari interessanti sul modo di vestire: “Senza il tradizionale berretto di panno nero coperto dalla tela cerata e con visiera, che lo fa distinguere allorché scende da bordo, veste alla stessa foggia di ogni più raffinato cittadino”. C’è addirittura tempo e spazio per soffermarsi sul dialetto: “Non ha gergo speciale vero e proprio, ma il suo dialetto molfettese si allontana da quello dei suoi concittadini, perché pone uno studio, direi quasi, per cambiare le vocali e specialmente 1’i e 1’u, tanto che finisce per pronunziare ai invece di io e tau invece di tu”. Ma sono i difetti caratteriali che, a quanto pare, divertono l’inviato settentrionale: “Diffidente per natura, analfabeta in genere, per tradizione, e per la vita che sin dalla tenera età conduce sul mare, è oltre ogni dire furbo. Pirata in navigazione, sfida gli elementi senza paura, ma giunto in porto è indolente sino alla infingardaggine, la prima sua cura è quella di svestirsi degli abiti di bordo, per comparire come esso dice”. Si entra poi nel vivo delle consuetudini del lavoro in mare, del lessico marinaresco e dei prodotti ittici che finiscono nelle loro reti. Il cronista Mundula assoda subito che “i pescatori di Molfetta si dividono in varchicellari e paranzuoli”, spiegando che “i primi son quelli che pescano con le barchette a poca distanza dal litorale; i secondi navigano sulle bilancelle, che accoppiate formano la paranza. Questi non conoscono altro metodo di pesca se non la rete a strascico a tutti nota, che chiamano rete, e con essa rastrellano completamente il fondo del mare in ogni stagione. Quindi elenca gli attrezzi che venivano adoperati: 1. Il Tartanieddu (tratticello, sciabica) che tirato da battelli isolati, o a mano da terra. 2. La Cannizzara, rète tenuta assieme dalle canne a forma di corona circolare; si adopera “pei muggini”. 3. La Rète de cioccole (rete degli asini), si adopera pei dentici, saraghi ed aurate. È a maglia grossa, guarnita come il tramaglio, e di altezza doppia di questo. 4. Le Pure, servono per gli sgombri e le occhiate; son senza fodera ed hanno la stessa maglia delle réte de ciocciole. 5. Le Massare, vengono adoperate per le vope ed i cefali; son senza fodera ed a maglia più piccola delle pure. 6. Gli Spedoni si adoperano per le sardine, e sono a maglia ancora più stretta delle precedenti. 7. Le ’Ntramacchiate e le ’Ntramacchiatelle si adoperano per lo scorfano e la triglia; sono a tre fodere ed a maglie più o meno sottili. 8. Infine il cuonzo o parancaro corrisponde al palamito; le spèrte e catàtère sono le lenze e gli ami; la focina è la fiocina; le nascite sono le nasse. Le specie di pesci che si pescano nelle acque di Molfetta sono: le triglie (mullus barbatus, e mullus surmuletus); si pesca in poca quantità; i saraghi, le occhiate, il pesce S. Pietro, lo scorfano, il palombo, le vope, gli sgombri, le sardelle (cuplea sardina) ecc. Abbondano i merluzzi (merlucius esculentus), che in dialetto vengono chiamati nuzzi fino a che non raggiungono la lunghezza di 30 a 40 cm.; oltre tali dimensioni vengono chiamati papantuoni, appellativo che si dà in segno di spregio forse perché la carne di tali merluzzi è stopposa ed insipida. Abbondano altresì i polipi, e in aprile e maggio, quelli di piccole dimensioni vengono per ore intere sbattuti in terra affine di renderli teneri; vengono chiamati pulpetielli cazzati, e si mangiano per lo più crudi come i calamaretti e la fragaglia che viene detta marosca (non sono che le piccole triglie novelle, barboncini, che restano nel sacco delle reti tirate dalle bilancelle). In maggio e giugno abbondano le sardine di piccole dimensioni che vengono chiamate sarachieddi; si pescano a tonnellate e costituiscono un alimento molto ricercato dai poveri per il suo vile prezzo (talvolta sino 5 centesimi al kg). Le scorpacciate di sarachieddi crudi sono non di rado causa di malattie viscerali che hanno le forme e le conseguenze dell’ileo-tifo ed affini, quando non sono il tifo petecchiale. A nessuna industria (salagione od altra maniera di conservazione) dà origine la pesca. Soltanto gli equipaggi che ritornano dalla pesca all’estero fanno seccare il prodotto della pesca fatta in viaggio, per provvista delle famiglie. Il pescatore molfettese incomincia sino dalla tenera età ad abituarsi al mare, e verso gli otto anni accompagna il padre alla pesca. È un privilegio del compartimento di Bari l’imbarco dei ragazzi al di sotto dei dieci anni, senza il libretto di matricola; e giova ai molfettesi per sottrarre una o più bocche alla famiglia ed abituare i ragazzi a salire sul pennone per serrare la vela. I mozzi pescatori vengono chiamati guagnone sinché possono arrampicarsi fino alla penna del pennone; diventano poscia spuntone verso i 15 anni, e non potendo più giungere alla estremità del pennone, seguono i guagnone nella parte più bassa di esso e prossima alla coperta. Diventano poscia gioveni e son tali fino verso i 18 anni, e finalmente diventano marinari. Al giovene è affidata in porto la custodia delle bilancielle, ed i mozzi devono dormire a bordo, mentre i marinari dormono alle loro case, e vengono chiamati per l’ora dell’imbarco da apposito individuo che conosce le abitazioni dei componenti 1’equipaggio di una paranza. Gli armatori, in massima, sono essi stessi pescatori che esercitano a bordo il loro mestiere come i marinari; però ve ne hanno di coloro che non essendo pescatori si fanno armatori per rifarsi dei capitali dati ad interesse per 1’acquisto ed armamento delle bilancelle. L’equipaggio della bilancella è composto in media di otto persone per la pesca nel distretto, di dieci per quella fuori distretto ed all’estero. Per ogni paranza vi è poi, oltre ai capitani di bandiera o padrone di carte (che corrispondono al conduttore preposto al comando ed al quale è intestata la licenza, ed al marinaro autorizzato al comando annotato sul ruolo di equipaggio) un padrone di pesca. È questi un marinaro, pratico dei luoghi ove il pesce abbonda, che dirige la pesca. Nello stato guadagna in più della sua parte 100 lire all’anno; all’estero per una campagna di pesca può guadagnare fino a 150 e talvolta 200 lire all’anno. In “Neptunia” si prosegue nella descrizione dell’attività del pescatore molfettese: l’arruolamento, sia per lo Stato che per la pesca all’estero, è sempre alla parte. Dell’utile, detratta la spesa pel vitto e la retribuzione alla cassa invalidi se le bilancelle navigano con ruolo, ad ogni paranza o coppia di bilancelle, spettano undici parti; il resto va diviso fra 1’equipaggio in ragione di una parte per ciascun marinaro, e di 1/3, 1/2, 3/4, o 2/3 di parte per ciascun mozzo al di sotto dei 18 anni, a seconda dell’età, del tempo che esercita la pesca, e della capacità a bordo. Ai ragazzi principianti spetta il solo vitto. Questo è costituito da pane biscottato che s’imbarca ogni settimana, per la pesca nello Stato; per tutta la traversata, se la pesca è all’estero, di vino più o meno buono e dei pesci pescati e i quali possono mangiarsi crudi. Ogni domenica, e talvolta ogni quindicina, 1’armatore rende i conti e viene fatta la ripartizione dell’utile. “Con l’economia portata sulle provviste della settimana o della quindicina 1’equipaggio fa la colonna cioè consuma l’economia impinzandosi di vino, pane, formaggio ed altro”. Il cronista Mundula torna a fare le pulci sul pescatore molfettese: è raramente ubriaco; è abituato a bere e sopporta bene il vino”. Dunque si analizza il risvolto economico, verso terre lontane: “la pesca esercitata dalle barche di Molfetta, nello Stato, fuori distretto, permette ai pescatori di sostentarsi a bordo e di guadagnare circa 300 lire all’anno pel mantenimento delle famiglie. Serve poi specialmente a Procida e Gaeta a fare arricchire i negozianti di pesce all’ingrosso. La pesca all’estero, nelle epoche più fortunate, fa guadagnare 400 lire o poco meno ad ogni pescatore pel mantenimento della famiglia. Però questo annuo guadagno, che può sembrare tenue, è aumentato dalla parte guadagnata dai mozzi, i quali sino all’età di 18 anni circa nulla ritengono per sé e contribuiscono alla migliore esistenza delle famiglie. Si può affermare, senza tema di smentita, che le famiglie dei pescatori sono fortunate quando, vi ha predominio di maschi. Del guadagno che gli armatori ricavano dall’impiego dei loro capitali, non è possibile stabilire la cifra esatta; però, data la media di guadagno annuo fatto da ciascun pescatore in lire 850 tra la pesca all’estero e quella nello stato, agli armatori resterebbero parti 11 x 350 = Lire 3850. Da queste è duopo detrattare: l’abbonamento al dazio pesce in lire 640 annue, il 20% circa per pagare gli interessi dei capitali impiegati per l’armamento delle bilancelle, cioè L. 770 circa; e finalmente il 505 circa, e cioè L. 1925 per l’ammortamento del capitale d’impianto, per la ricchezza mobile, e per provvedere alla manutenzione e rinnovamento degli attrezzi. Il guadagno netto pertanto che l’armatore può ricavare da una coppia di bilancelle è di lire 625 circa, che rappresenta 1’8.92 % d’interesse ricavabile dal capitale di lire 7000, costo medio di due bilancelle. Come di leggieri si può dedurre dalle su esposte cifre, la condizione degli armatori può dirsi florida. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Gli armatori, tranne pochi, per 1’acquisto delle bilancelle e pel loro armamento devono ricorrere al credito, e questo col tasso onesto dell’8% pagabile anticipato ogni quattro mesi, viene ad assorbire un’altra gran parte dell’utile netto, e non è raro che gli interessi finiscano per assorbire il capitale. D’altra parte: la proprietà è frazionata ed i passaggi di proprietà delle bilancelle, o di carati di esse, si succedono rapidamente. La buona fede dei pescatori è molto greca; epperò accade che i fornitori di attrezzi sono costretti a sequestri conservativi ed a sottostare a perdite non indifferenti, senza talvolta potere ricuperare il capitale, che del resto è abbastanza rimunerato dagli interessi!”. Mundula sostiene che non è questo il caso di abbandonarsi a malinconiche considerazioni. Tuttavia si sofferma a “dipingere” il finale sui varchicellari: “questi, a differenza dei paranzuoli, sono più modesti nelle loro aspirazioni, più affezionati al mare ed alla loro barchetta, meno fortunati talvolta, a seconda delle annate e delle stagioni. Molti di essi sono proprietari della varchicella e con essa vivono sul mare e pel mare. Sull’imbrunire vanno a calar le reti nei luoghi da essi ben conosciuti, e alla mattina le salpano, per poscia recarsi al mercato e vendere il prodotto più o meno abbondante, dal quale dipende la esistenza loro e delle famiglie. Non sono molti i varchicellari, e, tranne qualche annata scarsa, vivono agiatamente perchè il lusso dei paranzuoli non li opprime”. Si avvia alla conclusione: “Vi è molto da dire intorno ai pescatori di Molfetta per farne conoscere 1’indole e le abitudini; ma per una prima corrispondenza mi sembra sufficiente quanto ho esposto, i paranzuoli meritano di essere studiati ed auguro ad essi, credenti in S. Corrado e nella Madonna dei Martiri che: anziché affidarsi al miracolo della Vergine per pescare lo storione allorché in settembre ricorre la festa della Natività di M. V., coll’aiuto delle classi colte e dirigenti, e con una legislazione sulla pesca più completa e più osservata di quel che ora non lo sia, vengano a formare una classe più agiata e meno negletta, capace effettivamente di contribuire alla ricchezza della nazione italiana”1. © Riproduzione riservata 1 A. MUNDULA, in Neptunia, Rivista Italiana di Pesca e di Acquicultura (marina, fluviale e lacustre), anno XVI, n. 16, edita a Venezia il 31 agosto 1901.

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