Colaianni: la sfera pubblica deve essere governata dall'etica
Sul tema della “questione morale”, ormai cavallo di battaglia di “Quindici” e prepotentemente riproposto dalle sconcertanti notizie delle ultime settimane che hanno portato all'arresto del presidente della “Molfetta Multiservizi”, Michele Palmiotti di Forza Italia, abbiamo scelto di ascoltare il parere del prof. Nicola Colaianni, docente di diritto pubblico presso l'Università degli Studi di Bari e già magistrato presso la Corte di Cassazione. Dal suo punto di osservazione esterno rispetto alla vicenda contingente, il prof. Colaianni evidenzia l'importanza del rapporto tra l'etica personale e la sfera della politica e mette in guardia dai rischi di una nuova ingerenza delle pratiche del malaffare all'interno delle istituzioni.
Prof. Colaianni, l'idea di questa intervista nasce da un episodio di cronaca giudiziaria della nostra città. Come forse saprà, vista la eco che l'episodio ha avuto anche su tutta la stampa regionale, il presidente di una azienda municipalizzata del Comune è stato arrestato qualche giorno fa con gravi accuse (su cui la magistratura sta ancora indagando) che vanno dal voto di scambio a quella di aver pagato con soldi pubblici un pregiudicato per ottenere la restituzione di un automezzo rubato. Il tutto è aggravato dal fatto che il suddetto Presidente, durante gli interrogatori con i magistrati, avrebbe negato (stando a quanto si è appreso) ogni circostanza, pur in presenza di inequivocabili intercettazioni telefoniche. Ora, ovviamente la magistratura farà il suo corso e di certo non spetta a noi fare sentenze, però, e vorrei cominciare da qui, si può derubricare (come è stato fatto per esempio da esponenti della stessa maggioranza e dallo stesso sindaco di Molfetta) episodi come questi solo alla responsabilità personale di un singolo o piuttosto riguardano necessariamente anche la sfera pubblica?
«La responsabilità penale è personale e sotto questo profilo bisogna stare attenti a non chiamare altri in correità, sia pure solo politica. Ma quando si tratta di amministratori pubblici o di aziende a capitale pubblico la questione travalica il caso personale, perché si tratta di persone scelte non attraverso un concorso o una graduatoria di qualità ma nell'ambito di una spartizione e “in quota di” un partito o addirittura di un singolo politico. Non vorrei fare paragoni impropri, anche perché non conosco il caso specificamente, ma la questione è la stessa che si pone di fronte a crimini consumati nei paesi di mafia. Anche in questo caso si tende a confinarli nella sfera della delinquenza comune o ad isolarli dal contesto. E invece per capirli, per contrastarli, per sensibilizzare l'opinione pubblica, è necessario aver presente proprio il contesto. Si deve presumere, cioè, che essi avvengano proprio perché il contesto è quello, salvo prova contraria. Così è per la criminalità contro la pubblica amministrazione: tanto più quando si tratta di reati come il voto di scambio, che implicano un alto tasso di politicità o di riferibilità alla sfera pubblica».
Il Gip che ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare ha scritto nel provvedimento che “la condotta dell'indagato compromette l'immagine dell'istituzione e innesca un ingiustificato ma inevitabile senso collettivo di sfiducia in una intera classe politica. Ritenendo di fatto impensabile che un uomo delle istituzioni possa mentire ai carabinieri per coprire le responsabilità di un criminale pluripregiudicato in relazione a un tentativo di estorsione”. Ecco in questo periodo si parla tanto della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica ma, dal suo punto di vista, episodi come questi allontanano i cittadini dalle istituzioni o, al contrario, possono determinare una “reazione civile” che li riconduca ad interessarsi dei destini delle proprie comunità?
«L'uno e l'altro. Mi piacerebbe pensare soltanto alla reazione civile. Questa in molti casi c'è, ma solo raramente si istituzionalizza, si organizza stabilmente o produce antidoti condivisi contro il malaffare. La reazione più duratura è l'allontanamento dei cittadini dalla politica. Vista sempre più come un ordinamento settoriale, come un settore professionale staccato dagli altri: che altro significa, in fondo, che alcuni cittadini, espressione della società civile, sono “prestati alla politica”? Che questa è una professione come un'altra, governata per giunta da proprie leggi, diverse da quelle ordinarie e soprattutto dalla correttezza dei rapporti e dallo spirito di servizio: “merda e sangue”, come ebbe a definirla una volta il ministro Formica».
Quale senso diffuso possono determinare nei cittadini episodi di questa natura (sempre, ovviamente, se saranno confermati dalla magistratura): insomma se rappresentanti delle istituzioni si comportano in questo modo, ognuno potrebbe sentirsi autorizzato a fare altrettanto. Su quali basi, invece, oggi si deve impostare il rapporto tra l'etica dei singoli e la politica come perseguimento degli interessi collettivi?
«C'è un legame tra la morale individuale e la politica: è l'etica pubblica. Noi seguiamo spesso un sistema morale per cui tutto ciò che non è penalmente rilevante – e, quindi, non rientra nella responsabilità personale – è lecito. Non è così, non può essere così: la sfera pubblica è governata prima di tutto da un'etica, da una deontologia, che trova espressione formale nei codici disciplinari ma si esprime anche attraverso principi non scritti ma di universale accettazione. Pensiamo al fenomeno del nepotismo o della cuginanza: in questo paese è ormai diffusissimo, va dai professori universitari agli aeroportuali, per dire, agli arbitri di calcio. Magari le carte sono a posto. Ma che non ci sia nulla di illecito, penalmente o amministrativamente, non toglie che si tratti di un fatto contrastante con l'etica pubblica. Un ritorno al tempo in cui le cariche pubbliche, in senso ampio, si trasmettevano per successione o si donavano o si vendevano. Quel tempo era stato superato dallo stato di diritto, che ora si va sgretolando sotto la spinta di interessi corporativi e privati. E non c'è “mani pulite” che tenga. La “questione morale” è sempre lì, è consustanziale con la democrazia».
Quanto hanno influito anche le riforme istituzionali, che sembrano aver sostituito ad un solo sistema di potere centrale, tanti sistemi di potere sparsi sul territorio ma che replicano le stesse logiche? In questo senso la prossima riforma costituzionale aggrava questo fenomeno?
«Il sistema uninominale, con la personalizzazione della politica, aggrava il fenomeno. In questo senso anche il modello di “un uomo solo al comando”, come quello prefigurato dalla riforma costituzionale, porta acqua al mulino del malaffare. Non ci sono più i partiti con le loro “morali” magari discutibili (si pensi all'attenuante generalmente accordata a “chi ruba per il partito”) ma che almeno sanzionano le immoralità personali più vistose. Analogamente il forte decentramento del potere ha fatto venir meno il potere sanzionatorio dei “superiori”, degli organi tutori. Non c'è più il comitato di controllo, non c'è più il superiore ministero, tutto è affidato all'esercizio di un'autonomia a cui non si è tradizionalmente preparati e per cui neppure ci si allena. Come se ne esce? Discorso troppo lungo. Comunque, almeno tre punti: articolare un “ministero dell'onestà”, per riprendere il titolo di un libro di Rodolfo Brancoli sul sistema americano, con una serie di codici deontologici anche di autoregolamentazione (per esempio sul modo di distribuire incarichi e consulenze); incentivazione delle espressioni di cittadinanza attiva, efficace antidoto alle pratiche di sudditanza e di privatizzazione del potere; studio diffuso della Costituzione come legge superiore alle altre, perciò non rivedibile dalle maggioranze parlamentari contingenti, e bussola di orientamento in tutti i casi in cui le leggi ordinarie nulla dispongono».
Giulio Calvani
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