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Cento anni dall'attentato di Sarajevo
29 giugno 2014

La maggior parte dei giovani, alla fine del secolo, è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa si che la presenza e l'attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi. [Il secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi – Eric John Blair Hobsbawm]

La fortunata definizione del XX secolo ideata dallo storico britannico Eric J Hobsbawm, nasce da due grandi eventi: l’inizio delle guerre totali e la fine della c.d. guerra fredda. In virtù di tale scelta “il secolo breve” inizia il 28 Giugno 1914 con un assassinio e finisce il 28 Giugno 1991 con un discorso del presidente francese Mitterrand. Due date ed un solo luogo: Sarajevo. Sono passati cento anni dal tristemente noto tirannicidio operato dal giovane anarchico serbo Gavrilo Princip: durante la visita della città da parte dell’erede al trono dell’impero Austro – Ungarico egli vuotò il caricatore della propria pistola contro la coppia reale. Francesco Ferdinando d’Asburgo Este e sua moglie Sofia Chotek von Chotkowa morirono qualche minuto più tardi, durante gli inutili soccorsi. Gli storici moderni sono concordi nell’affermare che tale evento fu la miccia, cioè l’innesco per far esplodere la miscela di rivalità e di interessi politici ed economici che agitavano l’Europa da qualche decennio. Il pontefice massimo del tempo, Benedetto XV, chiamò quella che accadde in seguito “l’inutile strage”. Poiché tra la fine di Luglio e l’inizio di Agosto di cento anni fa milioni di uomini, donne ed armi furono mobilitati per combattere lungo i fronti di tutto il vecchio continente. Cominciò così la Prima Guerra Mondiale, che finì solo nel Novembre del 1918. Questa è la storia e molti si apprestano a ricordarla con cerimonie e convegni atti a commemorare il sacrificio dei nostri antenati. Esiste però anche la microstoria, quella fatta dai soldati semplici, dalle madri che pregavano per i propri figli, dai padri costretti ad abbandonare le famiglie, dai giovani deceduti al fronte. Molfetta, essendo in Puglia, sembrava lontana dal fronte italico concentrato tra Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Ma non fu così, la città subì tre attacchi militari nel corso della Grande Guerra che provocarono distruzione, morti e feriti anche tra la popolazione civile.

Dal 2011 le associazioni combattentistiche e d’arma operanti sul territorio molfettese si sono impegnate in un minuzioso lavoro di ricerca e raccolta del materiale riguardante la Grande Guerra (cui l’Italia prese parte dal maggio 1915); opera che ha già portato a raccontare la storia - spesso dimenticata - di alcuni nostri giovani concittadini (i capitani Carabellese, de Gennaro e de Candia ed i tenenti Marzocca e Magrone) e che proseguirà nei prossimi mesi, con convegni e mostre tematiche aperte gratuitamente al pubblico. 

Il lavoro certosino di queste associazioni riceve ormai da tempo il riconoscimento ed il patrocinio di numerosi Enti, anche a livello nazionale, segno di una attenzione sempre più crescente per il loro operato ed attestato di stima e serietà per tutti coloro che, operandovi, contribuiscono a tenere sempre vivo ed attuale il valore della memoria, garantendo alle nuove generazioni (per dirla con le parole di Eric J Hobsbawm) quell’essenziale “rapporto organico con il passato storico del tempo in cui vivono”.

Autore: Le associazioni combattentistiche e d'arma
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“Immunità parlamentare” - Hanno votato a favore Pd, Forza Italia, Ncd, Scelta Civica, Popolari e Lega Nord. Contro M5s e Sel. Astenuto il senatore di Fi Augusto Minzolini. Il gattopardismo italiano non cambia, mai!!! Cosa c'entra tutto questo con la Storia in argomento? Presto detto: cambiare tutto per non cambiare niente. La solita storia: l'italianità! Veniamo all'argomento in questione e vediamo i molti collegamenti con l'Italia di sempre. - Sia come sia, in quello che enfaticamente venne chiamato il “maggio radioso”, l'Italia entrò in guerra con 35 divisioni di fanteria, 4 di cavalleria, 1 di bersaglieri e 2 raggruppamenti alpini. Già nei primi giorni di lotta, le lente tradotte scaricarono nelle immediate retrovie 852.000 soldati con ben 23.000 ufficiali, ai quali erano da aggiungersi 344.000 uomini della milizia territoriale. Verso la metà di giugno, il Regio Esercito poteva contare su ben 1 milione e mezzo effettivi delle classi tra il 1885 e il 1895. Non era uno sforzo da poco per un Paese, in gran parte ancora agricolo, che arrivava appena a 36 milioni di abitanti. Purtroppo, alla quantità umana in termini numerici non faceva riscontro un adeguato equipaggiamento. – basti dire che i soldati italiani in divisa grigioverde non avevano elmetto; lo avrebbero fornito più tardi i Francesi – e tanto un armamento all'altezza dei tempi. Non c'erano abbastanza fucili moderni (gli ottimi Novantuno a sei colpi) per tutti quei soldati, e si dovettero rispolverare i vecchi catenacci Wetterli monocolpo del 1870. Non si stava male, invece, quanto a cannoni, poiché i pezzi d'artiglieria d'ogni calibro erano 2.122. Sventuratamente proprio i pezzi più moderni, fabbricati con metallo non sufficientemente solido per reggere alle sollecitazioni di recenti esplosivi chimici da lancio, il fulminato di mercurio e la cordite, avevano la preoccupante tendenza a scoppiare, naturalmente uccidendo i serventi, o almeno a perdere la rigatura, facendosi assai imprecisi nel tiro. Pessima era la situazione in fatto di mitragliatrici, che ammontavano a solo 618 perché il ministro della Guerra britannico, Lord Horatio Kitchener, si era decisamente opposto alla cessione dall'Inghilterra all'Italia di una sola Lewis, motivando il suo diniego con una frase sprezzante: “Non siamo certi da che parte spareranno quelle diaboliche armi a ripetizione”. Il risultato fu che, già nei primi giorni di contatto-fuoco con il nemico, il Regio Esercito disponeva in media di due mitragliatrici per ogni reggimento di 5.000-6.000 uomini, mentre quello austriaco ne aveva due per ogni battaglione di 900-1.000 uomini (che sarebbero presto diventato otto). Ma le deficienze degli Italiani non si esaurivano qui. Per fare un altro esempio, oltre a quello degli elmetti inesistenti, mancavano le cesoie per tagliare i reticolati: lo Stato Maggiore non aveva ritenuto che al fronte alpino, non sarebbe mai stata guerra di trincea. Ottimisticamente, poi, i politici Salandra e Sonnino ritenevano che il conflitto si sarebbe risolto – tricolore trionfante – nel giro di pochi mesi. Sono trascorsi cent'anni? L'ITALIANITA' GATTOPARDIANA E' SEMPRE QUELLA – CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NIENTE.
Vorrei continuare, se permettete, il prof .Occultis. – Al di là delle mire su Trento e Trieste, importanti finchè si vuole, ma negoziabili senza bisogno di ricorrere a un bagno di sangue, giocò probabilmente nell'animo e nella mente di Vittorio Emanuele III la convinzione che l'Austria-Ungheria era ormai un impero al tramonto e che la Germania si sarebbe dissanguata nelle pianure e sui colli di Francia. Sarebbe troppo attribuire retrospettivamente al sovrano la lungimiranza di aver capito che, prima o poi (1917), anche gli Stati Uniti d'America avrebbero rovesciato contro gli Imperi Centrali le loro immense risorse; ma, in ogni caso Vittorio Emanuele di Savoia era indubbiamente il re di un Paese, l'Italia, in quel tempo tutt'altro che pacifista, come aveva dimostrato di recente con l'impresa libica del 1911-12. Ciò non significa che le masse italiane fossero favorevoli alla guerra, non importa dalla parte di chi. Anzi, è vero esattamente il contrario. Presentando che la guerra sarebbe stata lunga e dolorosissima soprattutto per le classi operaie e contadine, che ne avrebbero sopportato il massimo onere, la grande maggioranza degli Italiani era fieramente avversa alla guerra stessa, e non solo perché sobillata dai socialisti o succube della Chiesa. Quindi: ostilità alla Triplice Alleanza, sì; guerra all'Austria, no. Perfino il Parlamento avrebbe voluto mantenere sine die lo stato di neutralità. Tuttavia, le correnti interventiste, che più o meno confusamente vedevano nel conflitto e nell'immancabile vittoria un'occasione unica, forse anche irripetibile, per fare entrare definitivamente e a vele spiegate l'Italia nel novero delle Grandi Potenze, furono più forti di ogni opposizioni. Sia pure per gradi, e non senza incertezze e ripensamenti, dopo aver chiesto inutilmente a Vienna non solo la cessione del Trentino, ma anche di Gorizia e di alcune isole della Dalmazia, più l'autonomia di trieste e mano libera in Albania, si giunse al Patto di Londra con l'Inghilterra e con la Francia (26 aprile 1915), che impegnava l'Italia a entrare in guerra entro un solo mese. Inizialmente il Patto fu tenuto segreto e per otto giorni la posizione politica di Roma risultò, senza dubbio ambigua. Ma la situazione tornò chiara per tutti il 4 maggio, quando l'Italia annunciò di volersi ritirare dalla Triplice. Fu allora che a Vienna caddero le ultime illusioni di poter mantenere sull'arco alpino solo poche truppe di copertura, mentre già da un certo tempo Parigi aveva sguarnito il confine franco-italiano, sicura ormai che la Francia non sarebbe stata attaccata, e aveva inviato i suoi soldati a nord-ovest contro le armate tedesche. Il 5 maggio, per celebrare il 55° anniversario dell'impresa garibaldina dei Mille, D'Annunzio pronunciò a Quarto un infiammato (sebbene eccessivamente retorico) discorso interventista. Il 18 maggio, il cancelliere tedesco, Bernard Von Bulow, tentò un'ultima mediazione tra Roma e Vienna, ma oramai era troppo tardi. Il 20, sia pure non convinta, la Camera diede i pieni poteri a Salandra con 407 voti contro 74, anche se era chiaro che questo significava la GUERRA.

A peggiorare i rapporti tra Roma e Vienna, non furono soltanto le rivoltellate sparate a Sarajevo dallo studente panslavista Gavrilo Princip al principe ereditario d'Austria Francesco Ferdinando (28 giugno 1914), quanto l'eccessiva e affrettata rappresaglia austriaca a quelle rivoltellate: l'ultimatum alla Serbia del 23 luglio, inviato senza informare il governo italiano, e ancora di più la brutale aggressione del 28, che Aveva innescato tout-court, in una delirante e irriflessiva reazione a catena, la Prima Guerra Mondiale (che fino all'avvento della Seconda si sarebbe chiamata semplicemente la Grande Guerra) Già il 1° agosto 1914, infatti, la Germania aveva mobilitato le sue forze contro la Russia, alleata e protettrice della Ser5bia, e il 3 contro la Francia, coinvolgendo così anche l'Inghilterra, legata alla Francia dal Patto dell'Intesa, stipulato nel 1904. Tra queste ultime due date, il 2 agosto, l'Italia aveva proclamato la propria neutralità scontentando un po' tutti nelle capitali europee, ma in special modo Francesco Giuseppe, che aveva esplicitamente invitato Vittorio Emanuele a onorare la Triplice e a schierarsi dalla sua parte e da quella del Kaiser Guglielmo II. In pieno accordo con il presidente del Consiglio Antonio Salandra e con il ministro degli Esteri marchese Antonio di San Giuliano, re Vittorio si era rifiutato di muovere contro l'Intessa (Francia, Inghilterra e Russia), pur non lasciando intendere affatto di preparare uno di quei “giri di valzer” che andavano tanto di moda nell'Europa del tardo Ottocento e del Primo Novecento. Quali furono i motivi principali che, nel maggio del 1915, indussero il re, Salandra e il nuovo ministro degli Esteri Sidney Sonnino a gettare l'Italia nel conflitto con la dichiarazione di guerra all'Austria (non ancora alla Germania, rinviata al 1916), è un problema abbastanza difficile da decifrare. Nessuno storico serio, afferma più, oggi, che la guerra fu fatta solo per conquistare Trento e Trieste, tanto più che Berlino premeva insistentemente su Vienna affinchè cedesse all'Italia almeno il Trentino fino a Salorno, purchè l'Italia conservasse lo stato di Paese neutrale. Certo, i clamori degli irredentisti erano tanti ed erano forti, per non parlare delle vocdi potenti di uomini carismatici, e accesamente interventisti, come Filippo Corridoni, Benito Mussolini e il “vate” (non ancora poeta-soldato) Gabriele D'Annunzio. - (??????????)

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