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Carne e sangue, nuova raccolta poetica di Vito Davoli Secondo capitolo di un’ideale trilogia
15 novembre 2022

Sta riscuotendo notevole apprezzamento di pubblico e di critica il bel volume di poesie Carne e sangue di Vito Davoli, secondo capitolo di un’ideale trilogia apertasi con Contraddizioni (Edizioni Leucò, Molfetta 2001). L’opera è stata pubblicata dall’editore teatino Tabula Fati, all’interno della Collana dei Poeti La Vallisa diretta da Daniele Giancane, curatore anche dell’introduzione che segnala come tale “scrittura tendente al ‘discorso’, all’interrogazione esistenziale”, si configuri senz’altro come “una proposta letteraria di spessore”. Davoli è intellettuale estremamente impegnato nella promozione della cultura. Molfettese, vive a Bisceglie. Laureato in Lettere Classiche, è poeta, scrittore, giornalista e critico letterario. È redattore, oltre che dell’“Altra Molfetta”, della prestigiosa rivista letteraria “La Vallisa” della quale coordina l’omonimo blog; ha costituito, insieme a Daniele Giancane, una rivista dal titolo “Pubblicazioni Letterariæ”. È curatore di diverse pubblicazioni collettanee: si ricordino Surrealia, insieme a Daniele Giancane; D’amori, di delitti, di passioni con Beppe Costa; Sulla Poesia con Cosimo Rodia e ora la riedizione (ampliata) della storica antologia SignorNò! con Marco Cinque. Blogger, cura costantemente l’opera di recensione e critica militante e ha collaborato alla dodicesima edizione della Notte Bianca 2022, organizzata dall’Accademia delle Culture e dei Pensieri del Mediterraneo. Carne e Sangue riprende il motivo ch’è fuoco vitale della scrittura di Davoli, l’auscultazione delle “contraddizioni” a cui è intitolata la trilogia. Il binomio eponimo dell’opera ricorre in più testi, svelando l’intenzione autoriale. In Devo proprio, per esempio, Davoli conclude che “il sangue è sempre / sotto / il dolore della carne”; il testo Carne e sangue si snoda quale rassegna di “fantasmi” della memoria, figure evanescenti che a tratti assumono connotazioni gorgonee, rivelando il mito soggiacente ai testi: “Raccoglie intrichi fino a dolorare / di serpi velenose fra i miei fianchi, / i suoi capelli, gorgone scomposta, / poveri come un dito contro altre due mani”. Non è un caso che la lirica termini con “Il mio fantasma è un dramma / che mi imprigiona fra sbarre roventi / di carne e sangue: i miei timori, me”. In una delle strofe precedenti tale fantasma era stato ancora definito quale “dramma”, ma “generato e nutrito in una farsa”. Un esistere che assumerebbe dunque connotati farseschi se non fosse per il dolore, un male talora dolce e a volte lacerante che riviene dal passato ed espone al ‘peccato’ di Orfeo e della moglie di Lot (Genesi, 19, 26), mutata in statua di sale per essersi volta a guardare Sodoma in fiamme. Davoli la rievoca in uno dei testi, a richiamare il rischio della pietrificazione (nella variante della salificazione) che aleggia sull’intera raccolta, in cui il mito della Gorgone sembra essersi sostituito – perlomeno affiancato – a quello (dominante in Contraddizioni) di Altea: “Ma quanta forza serve / per evitare di restare sale, / per non voltarsi indietro”. Il pericolo della pietrificazione è legato a una condizione esistenziale di stasi. Tale status può essere correlato a più fattori. Uno di essi è, a nostro avviso, derivazione dell’ossessione montaliana del varco, declinata, e perennemente frustrata, nel voler far combaciare i pezzi di una realtà che si sottrae a una precisa decrittazione: “sulla battigia / nessun coccio / s’incastra esattamente con un altro. / Né resta fermo”. Se nulla nella Natura “resta fermo”, l’uomo ha invece l’impressione di un “immoto andare”. Ecco perché Davoli spesso propone al lettore l’immagine del cavallo che, oltre a essere icona di plasticità ed energia, diviene proiezione di ciò ch’egli stesso vorrebbe essere, del suo anelito alla libertà. Ecco perché alcune delle liriche più intense esprimono la volontà di sciogliersi in danza; ne deriva l’importanza della musica (anche di quella figlia della reminiscenza), del tango in particolar modo e degli echi del periodo caraibico: “Propizio il vento caparbio mi porta / lonta- ne note dell’Havana vecchia” (Ballerò). Qui la danza è una sorta di triste offerta al cielo: “Continuerò a ballare / offrendo al cielo il viso / come un’ombra il cui pianto non vedi / e lo porti a morire fra le stelle”. Se la prima parte della raccolta è dedica- ta all’Amore, la seconda, con i Sonetti clau- dicanti, è incline al lusus di carattere tecnico, con anche un recupero in chiave ironica, del- la rima. La terza, con un titolo di sapore whit- maniano (Capitano, quel capitano) ha come tema nodale il “silenzio del sacro”. L’uomo si sente gittato in una realtà che non compren- de e che lo condanna alla sofferenza; avverte un disperato bisogno di Dio e al contempo – ulteriore declinazione della contraddizione – gli si ribella. La letteratura classica (vivida nel mito – penso a quelli già citata e alla νuξ μακρα di Zeus e Alcmena –, ma anche nelle citazioni e riscritture, su tutte quella di Saf- fo), presenza costante insieme a quella italia- na e ispano-americana, è qui affiancata dalla costante memoria delle Sacre Scritture e dei testi liturgici. Se risuonano Osanna sardoni- ci e riscritture dissacranti di litanie, questo non deve ingannare: è attitudine riconduci- bile all’apparente hybris dello scrittore, che cela un disperato bisogno del divino nelle maglie del quotidiano. Così, Davoli esprime intensamente la sua voce anche nella dimen- sione della poesia metafisica, sino al finale sotto il segno della sindone, attorno alla qua- le si riannodano fantasmi salvifici e non, quali l’amata, la figlia, l’archetipo materno (Altea, Eva, Maria, la madre), ma anche, forse soprattutto, il Capitano: l’Assente-presente per eccellenza. © Riproduzione riservata

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