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“Belvoir” di Girolamo Nisio  
15 aprile 2007

Sentire “fremere la vita” e il “dolore del mondo” è spesso prerogativa della poesia; ciò appare vero anche in Belvoir, libello poetico estremamente complesso e carico di sovrasensi, opera di Girolamo Nisio. L'ambasciatore d'origine molfettese, alle spalle l'esperienza “di due campagne della guerra di liberazione”, confeziona un'interessante raccolta, che assume il nome dal poemetto centrale, intitolato a un “castello crociato sul Giordano”. Belvoir diviene icona dell'aspirazione alla pace ecumenica, capace di sanare le piaghe inferte al mondo dagli scontri di matrice religiosa. Conflittualità le cui radici si perdono in un passato alquanto remoto e che hanno acceso la creatività di un genio inquieto come Torquato Tasso e determinato la nascita, a far da sfondo al futuro “trionfo di Goffredo”, del dramma di Tancredi e Clorinda. La morte/ conversione/rinascita della bellicosa eroina rivive in un'atmosfera trasognata “fra rucole umili” a carezzare “il morente sorriso”; la controbilancia l'urlo, ch'è “strazio orrore” a suggellare l'eterno tormento di Tancredi “braccato dalle ombre”. Se fra “le colline assorte” rivive la storia sacra, non mancano riferimenti al vissuto dell'autore. Germogliano così le pagine migliori del libello. Quelle che seguono la scia del ricordo. Ricordo delle “labbra genitrici” che sorridono dallo schermo bianconero di una lapide e ridestano tenerezze infantili. Ricordo che oppone un senso di stasi al frenetico dileguarsi d'un treno; ricordo ch'evoca cipressi, cenere, ma anche lontane immagini di solarità. Assume colore, sapore, si fa concreto. Estrema concretezza e bellezza connotano anche gli scritti ispirati dalla figura del piccolo Edoardo. “Genio gioioso” alla scoperta di un microcosmo esperito gattoni, in una sorta di moderno plazer il “pargolo” è paragonato a quanto di più bello esista sulla terra. Le sue epifanie hanno un che di ieratico, come quando egli compare “assiso solenne sul seggiolone”. Persino proiezioni del mondo infantile, come il tenero elefantino Babar, si colorano di sacralità. A Edoardo è legata l'espressione più bella e preziosa del volumetto, nel momento in cui egli è definito, con maestria, “calice intatto / di grazia / dalla possa del vasaio”. Lessico 'grazioso' (per richiamare il verso), a tratti desueto, a suggerire un senso di mistero, che aleggia sui viaggi e i luoghi cui l'autore allude, come anche, dalla specola della “riva della Madonna dei Martiri”, su carezzevoli voci provenienti dal mare.
Autore: Gianni Antonio Palumbo
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